CONVERTIRSI
Abbiamo iniziato il nostro cammino
quaresimale con l'espressione del vangelo di Marco “Convertitevi e credete al Vangelo”. Di fronte a questo annuncio,
che abbiamo accolto prendendo le ceneri, ci siamo lasciati guidare dal Libro di
Giobbe, per ritrovare nella parola di Dio il senso della nostra conversione,
nella prospettiva di creare veramente una comunità che viva la comunione nella
conversione attorno alla Parola. Questa mattina, a conclusione del nostro
itinerario, vorrei soffermarmi su tre passaggi, in modo che possiamo trarre le
conclusioni di questo percorso che possano essere feconde per la nostra vita:
•
cosa
vuol dire “convertirsi”;
•
convertirsi
alla luce di Giobbe;
•
convertirsi
per poter costruire un'autentica esperienza fraterna.
COSA
SIGNIFICA “CONVERTIRSI”
Innanzitutto, la parola “conversione”, che risuona facilmente nel tempo quaresimale, ma
riguarda sempre la vita del cristiano come cristiano, perché è intrinseca alla
scelta battesimale.
Nel momento in cui siamo nati dall'acqua e
dallo Spirito Santo, in quel momento abbiamo accolto la vocazione alla
conversione, che non è, come tante volte noi diciamo, “diventare migliori”. La
conversione vera è far fiorire il dono del nostro battesimo: la vocazione ad
essere il mistero di Cristo. La bellezza della nostra vita è infatti percepire,
nel più profondo della nostra storia, la vitalità di Gesù nello Spirito, nell'obbedienza
al Padre, per essere veramente noi stessi. Nati da Dio, lentamente diventiamo
figli di Dio e saremo veramente figli di Dio nella maturità della fede, quando,
nella semplicità del cuore, con Gesù e come Gesù diremo: “Tutto è compiuto. Nelle tue mani consegno il mio spirito”.
La conversione è la vita di Gesù in noi che
cresce continuamente, come ci ricorda la parabola del seminatore. Cristo in noi
nel battesimo, nell'incontro con la nostra esistenza, che è il terreno, fa sì
che lentamente diventiamo quel frutto. Ogni giorno il Signore entra nelle
nostre storie, entra nella nostra esistenza, perché possiamo far fiorire la sua
presenza. La conversione è la fantasia creatrice di Dio nelle nostre persone,
perché il grande protagonista della Quaresima è Gesù, il quale è dentro di noi,
cammina in noi e fa germogliare in noi la sua sensibilità.
Ecco allora che il senso che noi daremo alla
rinnovazione delle promesse battesimali sarà la gioia di essere maggiormente
inseriti nella sensibilità di Gesù. La bellezza della Quaresima è imparare a
dare slancio alla nostra vita, per maturare giorno per giorno nell'ordinario,
nella stessa sensibilità e sensorialità di Gesù. Se questo è il grande progetto
che il Signore ci ha regalato il giorno delle Ceneri, perché potessimo
diventare immagine del Signore risorto, noi l’abbiamo realizzato con la parola
di Dio. L'incontro con la conversione, infatti, avviene in modo molto semplice.
L’abbiamo vissuto in questi venerdì: la parola di Dio, con l’ascolto del libro
di Giobbe, e la presenza sacramentale del Cristo nell'eucaristia. Sono le due
fonti della nostra conversione.
CONVERTIRSI
ALLA LUCE DI GIOBBE
Quando noi vogliamo veramente convertirci, il
punto di partenza è Dio che ci parla. Qualche volta viviamo o potremmo vivere
Quaresime di conversione facendo riferimento ai nostri ideali, ai nostri
propositi, che possono diventare grandi idoli. Noi ci convertiamo, invece,
perché ogni giorno il Signore ci parla attraverso la Sacra Scrittura,
attraverso la storia, attraverso l'emozionalità della nostra esistenza, ma è
sempre una Parola che deve continuamente far fiorire nello spirito la volontà
di novità di vita. Nella veglia pasquale, l’apostolo Paolo ci dirà che noi
siamo chiamati a camminare in novità di vita e la novità è Lui che parla, Lui
che entra nella nostra storia, Lui che continuamente ci fa sognare l’avventura
di essere uomini evangelici.
La conversione è questo dialogo. Lo abbiamo
colto nel Libro di Giobbe: il dialogo di Giobbe con gli amici, con la storia,
con Dio, perché la bellezza della vita di conversione del credente è un
dialogo. La bellezza della fede non è una somma di precetti, ma un dialogo dove
ogni giorno il Signore, che è in noi, ci parla. Il Libro di Giobbe ci presenta
un uomo in dialogo: è innamorato di Dio, ma non capisce Dio; un uomo che sa di
essere giusto, ma non capisce le ragioni dell'agire di Dio. La conversione è un
itinerario dialogico in cui noi entriamo, al di là dei nostri schemi, nella
novità di Dio.
Tante volte usiamo i precetti come
gratificazioni psicologiche. Dobbiamo aprirci all'avventura della fede! La
conversione è una Parola che entra in noi, dialoga con noi, perché con il Cristo
camminiamo nel tempo e nello spazio. Occorre essere discepoli innamorati di un
Maestro che è nuovo ogni giorno. La conversione è il nostro baricentro
esistenziale orientato al mistero di Gesù. Allora la conversione attorno alla
Parola ci apre sulla bellezza di Dio.
Che cosa ha portato alla pacificazione il
cuore di Giobbe? Lo vedevamo la settimana scorsa: la bellezza del creato, il
fascino del mistero di Dio. Ripeto: la bellezza, dove la bellezza di Dio, lo
diceva molto bene nel 1992 il cardinale Ratzinger, è entrare nella bellezza del
Crocifisso. Non evidenziamo a sufficienza che la bellezza è il cuore in
sintonia con l’oggi di Dio. In quella conferenza al Meeting di Rimini,
Ratzinger prese spunto dalla liturgia, citando i vespri che pregheremo lunedì prossimo,
dove l'antifona “Tu sei il più bello tra i figli degli uomini”, nella Settimana
Santa diventa “Non ha volto di uomo”. La bellezza è l’oggi di Dio vissuto.
La conversione nasce non solo da questo
dialogo, che deve continuamente accompagnare la nostra storia, la nostra
esistenza, ma da questo fascino che genera un cuore puro, un cuore aperto, un
cuore disponibile, un cuore sempre in cammino verso la grande meta: il Dio tutto in tutti.
Giobbe ci ha insegnato a leggere la nostra
esistenza problematica in un dialogo, complesso sicuramente, perché Dio non ci
toglie mai di libertà del pensiero e del cuore, ma con l’apertura al fascino
della bellezza di Dio. Usando il linguaggio che abbiamo ascoltato da Giovanni,
dobbiamo essere nelle mani di Dio: essere nelle mani di Cristo, nelle mani del
Padre, lasciandoci modellare dalla creatività dello Spirito Santo.
La conversione è il canto al capolavoro che
la Trinità opera in noi, perché noi ne siamo il riflesso.
Ci accorgiamo allora di quanto fosse vera l'espressione
di Bonhoeffer: “Se noi abbiamo davanti i comandamenti, siamo davanti a una
pesantezza che abbiamo difficoltà a portare; ma se chi porta la croce del
quotidiano è Cristo, allora è somma gioia e sommo gaudio”.
È molto bello che la liturgia bizantina
definisca la Quaresima come “il tempo della gioiosa tristezza”, come dicevamo
all'inizio di questo cammino. La conversione è respirare progressivamente la
Parola che guida i nostri passi, una Parola che vive di quel pane e di quel
vino che è la fiducia di Dio nei nostri confronti. Noi viviamo sempre in
conversione, perché Dio ha fiducia in noi, ci parla e ci invita alla sua
convivialità.
CONVERTIRSI
PER COSTRUIRE UN’AUTENTICA ESPERIENZA DI FRATERNITA’
Allora la conversione diventa, nel senso più
profondo, la costruzione di una fraternità, perché è principio diffusivo di
bontà nei confronti dei fratelli. La conversione non è diventare più buoni, ma,
secondo la bella immagine di Sant'Ambrogio, è diffondere il buon profumo di
Cristo. Il profumo è uno stile di vita, per cui, nella serenità del quotidiano,
regaliamo ai fratelli la novità che Cristo sta realizzando in noi.
La conversione è un atto di fiducia della
Trinità, che entra nelle nostre comunità perché diventiamo giorno per giorno
comunione. Provate a immaginare questo nostro ritrovarci col desiderio della
conversione. Siamo una comunità qui riunita, ma qui in mezzo a noi c'è una
comunione: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e noi, nella conversione,
entriamo lentamente nella comunione nel Padre, nel Figlio e nello Spirito
Santo, per diventare fraternità. Quello che qui celebriamo diventa fraternità
nella vita ordinaria.
La gioia della conversione lentamente ci
porta a vivere il “noi”. L’uomo è l’“io” che dialoga con il “tu”, per diventare
“noi”. San Leone Magno diceva che la Quaresima è digiuno solenne, perché è una
comunità in stato di conversione.
Poiché ciò che viviamo in Quaresima è
l'espressione straordinaria della nostra ordinarietà, penso che la bellezza del
cammino con Giobbe ci abbia portato a dire: “Se ho una vera coscienza di chi
sia il Dio della rivelazione, lo diffondo non con le mie idee, ma con il sapore
della sua Presenza”. La bellezza della
Chiesa è il diffondersi della soavità di Gesù, dono del Padre, nello Spirito
Santo.
Noi pensiamo di fare tante cose, ma qualche
volta le facciamo per essere gratificati. Spesse volte, dicono alcuni autori,
facciamo cose buone per essere appagati. La bellezza della conversione è
aprirsi sull'infinito delle nostre comunità in un sogno che non finisce mai. La
fede è un'avventura, in questo sogno inesauribile che si apre sull'infinito.
Penso che questa mattina il Signore,
radunandoci per concludere questo nostro cammino quaresimale, ci dica che
convertirsi è la bellezza di essere sempre più uomini. La conversione è una
libertà interiore dove il Signore diventa sempre più il Signore. È entrare in
quel Mistero che è il fascino di tutta la vita.
«ECCO,
SONO TUA PROPRIETÀ»
Allora, dopo aver ascoltato la Parola, entriamo
nei Divini Misteri, dove incontriamo un perdono generale, che genera una
conversione inesauribile. Quanto più ci sentiamo amati dall'ineffabilità di
Dio, tanto più cresce in noi il desiderio della novità di Dio vissuta, che è la
conversione.
Alla sera cerchiamo di trovare sempre
speranza, con uno stile rinnovato di esame di coscienza: non chiudiamoci sui
guai che abbiamo combinato, ma apriamoci alle grandezze di Dio che ci sono
state rivelate. Allora la conversione parte dal positivo, è l’atto della parola
di Dio e della sua eucaristia che penetrano dentro di noi per aiutarci
lentamente a vincere l'uomo vecchio.
Riempiendo di gratitudine il bicchiere,
lentamente togliamo il negativo della vita, ma nella gratitudine, in quel
positivo che è lasciarci amare dal Signore e, quando il Signore incomincia in
noi l'opera sua, la porta fino alla fine. Abbiamo questa docilità! Ascoltavamo
ieri la conclusione del Vangelo dell'annunciazione “Ecco, sono tua proprietà.
Fa’ di me quello che vuoi!”. Ecco la bellezza feconda della nostra
conversione.
PAROLA E SILENZIO
(Dietrich Bonhoeffer)
Facciamo silenzio
prima di ascoltare la Parola, perché i nostri pensieri sono già rivolti verso
la Parola.
Facciamo silenzio
dopo l'ascolto della Parola, perché questa ci parla ancora, vive e dimora in
noi.
Facciamo silenzio la mattina presto, perché Dio deve avere la prima Parola, e facciamo silenzio prima di coricarci, perché l'ultima Parola appartiene a Dio.
Facciamo silenzio solo per amore della Parola.
Dal Libro di Giobbe
(Gb 28,1-28)
Certo,
l'argento ha le sue miniere e l'oro un luogo dove si raffina. Il ferro lo si
estrae dal suolo, il rame si libera fondendo le rocce. L'uomo pone un termine
alle tenebre e fruga fino all'estremo limite, fino alle rocce nel buio più
fondo. In luoghi remoti scavano gallerie dimenticate dai passanti; penzolano
sospesi lontano dagli uomini. La terra, da cui si trae pane, di sotto è
sconvolta come dal fuoco. Sede di zaffìri sono le sue pietre e vi si trova polvere
d'oro. L'uccello rapace ne ignora il sentiero, non lo scorge neppure l'occhio
del falco, non lo calpestano le bestie feroci, non passa su di esso il leone.
Contro la selce l'uomo stende la mano, sconvolge i monti fin dalle radici.
Nelle rocce scava canali e su quanto è prezioso posa l'occhio. Scandaglia il
fondo dei fiumi e quel che vi è nascosto porta alla luce.
Ma la
sapienza da dove si estrae? E il luogo dell'intelligenza dov'è? L'uomo non ne
conosce la via, essa non si trova sulla terra dei viventi. L'oceano dice: «Non
è in me!» e il mare dice: «Neppure presso di me!». Non si scambia con l'oro
migliore né per comprarla si pesa l'argento. Non si acquista con l'oro di Ofir
né con l'ònice prezioso o con lo zaffìro. Non la eguagliano l'oro e il cristallo
né si permuta con vasi di oro fino. Coralli e perle non meritano menzione:
l'acquisto
della sapienza non si fa con le gemme.
Non la
eguaglia il topazio d'Etiopia, con l'oro puro non si può acquistare.
Ma da dove
viene la sapienza?
E il luogo
dell'intelligenza dov'è? È nascosta agli occhi di ogni vivente, è ignota agli
uccelli del cielo.
L'abisso e
la morte dicono:
«Con i
nostri orecchi ne udimmo la fama». Dio solo ne discerne la via, lui solo sa
dove si trovi, perché lui solo volge lo sguardo fino alle estremità della
terra, vede tutto ciò che è sotto la volta del cielo. Quando diede al vento un
peso e delimitò le acque con la misura, quando stabilì una legge alla pioggia e
una via al lampo tonante, allora la vide e la misurò, la fondò e la scrutò
appieno, e disse all'uomo:
«Ecco, il
timore del Signore, questo è sapienza, evitare il male, questo è
intelligenza».
ENTRARE NELLA
BELLEZZA DI DIO
Davanti agli interrogativi che la sofferenza pone a
Giobbe, di fronte all’esigenza del patriarca di avere una risposta da Dio, Dio
si manifesta nella bellezza: il creato, la forza degli animali, tutto ciò che
circonda Giobbe, tutto questo scenario diventa il linguaggio con il quale Dio
gli risponde. Davanti alla bellezza di Dio, Giobbe dice: “Se ho detto una
parola, non dirò più la seconda e tapperò la bocca.”. Giobbe non riceve
risposta al suo interrogativo, ma dice a Dio: “Hai ragione”. L'esperienza di
Giobbe non risolve il problema di come l'uomo debba affrontare il dramma
dell’esistenza, tuttavia la risposta che Dio gli dà è la strada che noi siamo
chiamati a percorrere per potere entrare nel respiro della vita.
Se gli interrogativi possono schiacciare le nostre
persone e di riflesso possono condurci ad essere pessimisti davanti alla
storia, la risposta di Dio a Giobbe è anche la strada: entrare nella bellezza
di Dio. Le ultime parole che abbiamo ascoltato indicano all’uomo come
affrontare i grandi interrogativi. Il timore del Signore è la sapienza che ci
permette d'entrare nella bellezza di Dio, per poter accedere a una luce che ci
illumina davanti al cammino della vita. Il timore del Signore infatti non è la
paura, ma è il fascino di qualcosa di grande che prende la nostra vita e ci
porta in una bellezza che diventa la nostra speranza. Ecco allora che questa
mattina vogliamo insieme riflettere su questa esperienza.
LA VOCAZIONE ALLA
CONTEMPLAZIONE
Nel buio della storia il cuore si deve lasciare
prendere dal fascino della bellezza di Dio: è l'itinerario che viene regalato a
chiunque faccia la scelta battesimale. Nel senso più profondo dell’evento del
rinascere dall'acqua e dallo Spirito Santo riconosciamo la vocazione alla
contemplazione. Il battesimo non è semplicemente un superare il dramma del
peccato, ma ha una natura dinamica: il nostro baricentro esistenziale viene
sempre più attirato al mistero stesso di Dio. Dio ci ha fatto questo
regalo.
Se guardiamo l'esistenza di una persona, scopriamo
che Dio ci ha creati per avere il fascino del bello. Noi qualche volta
rimaniamo legati all'intelligenza e pensiamo che l'esistenza si costruisca con
il pensiero, ma non è vero. L'uomo è soprattutto cuore. Il cuore stimola alcuni
aspetti della nostra personalità, alcune corde da violino, che ci permettono di
entrare nel bello: la musica, l'arte, la poesia. L'uomo, che si interroga sul
senso della vita, si deve collocare in questa contemplazione, così si libra nel
bello, aprendo l’anima sull'infinito. Ecco perché l'autore dell'intermezzo del
libro di Giobbe (cfr cap. 28) eleva un canto alla bellezza del creato. Quando
si è davanti al bello, cambia il parametro con cui si osserva la propria
esistenza: si passa dal considerare gli eventi o gli avvenimenti, a lasciarsi
attirare nell'infinito.
MI SENTO AMATO, SONO AMORE, AMO E QUINDI ESISTO
Davanti agli interrogativi gustiamo la bellezza. È
una verità questa che oggi viene particolarmente sottolineata, perché la
bellezza ci richiede di entrare in un orizzonte infinito in cui noi respiriamo.
Vorrei proporre un semplice trinomio, perché possiamo utilizzare le categorie
della bellezza per affrontare il dramma della vita: il bello genera emozione;
il bello, quando ci raggiunge, genera in noi una creatività che ci fa andare al
di là dell'intelligenza; l'emozione suscitata dal bello esprime un linguaggio
d'amore che viene dall'infinito.
Qualche volta noi pensiamo troppo e riteniamo che il
pensiero sia la nostra esistenza. Il mondo cristiano orientale ha una visione
diversa. Tale è la loro visione: mi sento amato, sono amore, amo e quindi
esisto. Quando l'uomo entra in questa bellezza amativa di Dio, in quel momento
l’emozione fa nascere tutto l'insieme di sentimenti che lo portano al di là del
semplice, freddo ragionamento: in questa emozione riesce a cogliere la bellezza
della bontà.
UN NUOVO STILE DI VITA
Il cuore è la bontà che genera uno stile nuovo di
vita, perché attraverso il gusto della bontà ritroviamo la verità della vita.
Dalla bellezza alla bontà, dove la bontà è il cuore in azione e il cuore in
azione accoglie il vero. Questo pensiero ci può aiutare a tendere il baricentro
della nostra esistenza verso i doni ricevuti dal battesimo: il bello e la
contemplazione. Ragionando troppo consumiamo le energie cerebrali; gustando il
bello ci sentiamo rigenerati.
Giobbe ci dice le parole che l'uomo di oggi deve
riascoltare: “Entra nel bello, non ti sentirai più schiacciato, ma troverai la
strada per riscoprire la gioia di esistere”. Mi è piaciuto coniugare due
documenti di Papa Francesco, Evangelii
gaudium e Laudato si’: io posso
annunciare la gioia del Vangelo che mi avvolge cantando la bellezza del creato.
L'uomo che canta il bello, respira.
Ecco perché la bellezza è qualcosa di cui ci si deve appropriare. Usando il
linguaggio del salmo: “Alzo gli occhi verso i monti, da dove mi verrà l'aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto
cielo e terra”. Siamo tristi perché siamo chiusi in noi. Siamo ricchi di
speranza, quando usciamo da noi e ci lasciamo invadere dalla bellezza, che è la
gratuità di Dio per noi. Ci veniamo a trovare in una attrattiva continua nel
Mistero che rappresenta il vero riposo interiore della nostra persona.
IL LINGUAGGIO D’AMORE CHE VIENE DALL’INFINITO
Studiando la parola Dio, in latino Deus, accanto alla
parola Deus trovo la parola dies,
giorno: Dio è il giorno della vita. Attraverso questa semplice coppia di
parole, Deus - dies, intuiamo che
come il giorno ci fa respirare e ci apre alla novità che viene dall’alto, così
noi entriamo nella luce del giorno che è Dio: “In lui era la luce, la luce che
illumina ogni uomo che viene in questo mondo”. L'attrazione nella bellezza è
uno spazio per accedere al senso del Mistero, che porta alla speranza viva.
Spazio per il Mistero e speranza, insieme, portano alla vita. Non abbiamo paura
nelle difficoltà della storia, nella incomprensibilità di tanti avvenimenti di
aprirci su questo infinito. Dio può essere amato, ma non pensato, perché Dio è
l'infinito della bellezza. Usando un'espressione di San Gregorio di Nissa: “La
meraviglia ci fa cadere in ginocchio, creature davanti al Creatore”. È il
semplice metodo che noi dovremmo ritrovare, perché possiamo superare i punti
interrogativi che la storia ci pone. Un filosofo ebreo rispondeva alla domanda
“Chi è l'uomo?”, citando il Salmo ottavo: “O Signore nostro Dio, quanto è
grande il tuo nome su tutta la terra”. L'uomo è un mistero che viene illuminato
dal Mistero. Allora ritroviamo la speranza.
“TI RENDO LODE, PADRE, SIGNORE DEL CIELO E DELLA TERRA”
Vorrei evidenziare quattro passaggi, perché possiamo
veramente entrare in questo fascino di Dio che ci attira e ci impedisce di
rimanere schiavi dell'intelligenza, per potere respirare la bellezza.
Mi viene in mente il cantico delle creature nel libro
del profeta Daniele. Nel dramma della fornace ardente i tre fanciulli cantano:
“Benedetto il Signore”. La forza nell'esistenza è benedire. Un simile
atteggiamento scaturisce dall'incontro tra il rivelarsi della grandezza divina
e la viva consapevolezza dell'uomo d'essere una creatura povera. Ricordiamo
sempre l'atteggiamento del primo Giobbe: “Il Signore ha dato, il Signore ha
tolto. Sia benedetto il nome del Signore”.
Nella vita quotidiana dovremmo benedire di più il
Signore. È un metodo interiore da acquisire. Se noi qualche volta abbiamo gli
occhiali del buio che colgono solo il negativo dell'esistenza, dovremmo andare
dall'ottico della fede, che è la Santissima Trinità, per avere gli occhiali del
bello e così riscoprire, nel profondo della nostra esistenza, questa
meravigliosa creatività divina. Gesù davanti al dramma delle città del lago che
l'hanno rifiutato, ha rivolto al Padre la bella preghiera del Vangelo di Matteo
11, 25: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra”. Al buio del
lago si contrappone la luce del Benedetto: “Ti rendo lode, Padre, Signore del
cielo e della terra”.
Noi viviamo ogni giorno tutto questo nel mistero
eucaristico. La divina liturgia non è un rito da compiere, ma una bellezza
nella quale introdurre la nostra esistenza: E' la tematica propria del prefazio
che canta la grandezza della storia divina. il presbitero proclama: “E’
veramente cosa buona e giusta, fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in
ogni luogo a te, Signore, Padre Santo, Dio onnipotente ed eterno”. E poi nel
Sanctus, che ci fa entrare nella luminosità della liturgia del cielo, cantiamo:
“Veramente Santo sei tu, o Signore!”. È un'esperienza che facciamo sempre:
andiamo in chiesa con le scarpe sporche, il dramma della vita, entriamo nella
bellezza di Dio e usciamo luminosi. Quando il cuore è nel bello, l'anima è
luminosa. Questa è la grande speranza che nasce per la nostra storia.
Non è l'intelligenza che dà risposte agli
interrogativi della vita, ma l’entrare nella bellezza di Dio. È quello che ci
ha detto papa Benedetto nel suo documento Verbum
Domini, sulla parola di Dio nella chiesa e nella sua missione. Egli ha
affermato il primo luogo che la bellezza del creato ci permette di scoprire la
presenza del Cristo. Sono parole che ci devono catturare. Purtroppo, nella
nostra esistenza non siamo abituati a guardare in alto, non ci lasciamo
affascinare dalla bellezza, ma, senza la bellezza, l’intelligenza diventa per
noi motivo di tristezza davanti alla sofferenza.
CANTARE LA FEDE FIN DAL MATTINO
Allora credo che se riuscissimo ad entrare veramente
in questo modo di vedere la vita, ogni mattina quando ci svegliamo,
cominceremmo a vedere l'albeggiare e una simile sensazione ci porterebbe a
cantare: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio
salvatore”. È l'ouverture della fede all'inizio di una giornata. È questione di
metodo esistenziale. Se noi al mattino ci diciamo “Che cosa mi capiterà oggi?”,
in certo qual modo c'è già la paura di cadere. Se invece diciamo “L'anima mia
magnifica il Signore”,” Laudato sii mi’ Signore”, in quel momento respiriamo la
creatività della bellezza di Dio.
Allora credo che l’eucaristia che stiamo celebrando,
facendo memoria dell’esperienza di San Giuseppe, ci doni la possibilità di non
capire ma di lasciarci affascinare. In questo fascino che si costruisce
lentamente, e che non si compra al supermercato, noi riusciamo veramente a
vedere possibile l'impossibile. È molto bello come nell'antica liturgia
giudaica, che noi troviamo fino ai primi due secoli della Chiesa, anche davanti
all' interrogativo della morte si benediceva il Signore, si benediceva la vita che
non ha tramonto.
Entriamo in questa meravigliosa esperienza. Giobbe ci
ha detto: “Non lasciarti schiacciare, Dio è meraviglioso: lasciati affascinare
dal Dio tre volte Santo. Allora camminerai nella fiducia, nella speranza, e
troverai la bellezza dell'unità della vita.
Dal Libro di Giobbe
(Gb 42,1-6)
Giobbe prese
a dire al Signore: «Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è
impossibile. Chi è colui che, da ignorante, può oscurare il tuo piano?
Davvero ho
esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non
comprendo. Ascoltami e io parlerò, io t'interrogherò e tu mi istruirai! Io ti
conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi
ricredo e mi pento sopra polvere e cenere».
L’INCONTRO
TRA LA NOSTRA POVERTÀ E LA GRANDEZZA DI DIO
Giobbe è un uomo giusto. Sa che Dio è grande,
ma non comprende lo stile del suo agire. Ecco allora che Giobbe oggi ci
introduce nel metodo, perché, nei grandi dubbi che assalgono l'uomo credente
davanti alla storia, noi possiamo veramente camminare nella speranza: entrare
nel silenzio di Dio.
Giobbe ha avuto tutte le motivazioni per
affermare che Dio è incomprensibile. Non ha avuto risposte, ma ci insegna una
cosa molto bella: di fronte ai grossi interrogativi della vita, dobbiamo avere
coscienza che non possiamo conoscere e, poiché non possiamo conoscere, siamo
chiamati a entrare nel Mistero. Ascoltare la reazione di Giobbe e ritrovare il
metodo che Gesù ci ha insegnato nel testo evangelico ci permette di ritrovare
la strada, perché davanti ai grossi interrogativi della vita possiamo aprirci
alla speranza. Questo ci aiuta a cogliere che il valore di fondo della vita è
“oggi”, entrare “oggi” nel Mistero. I medievali, in un bel libro, avevano
scritto “la non conoscenza di Dio”, perché quando noi ci accostiamo alla storia
e alla vita quotidiana dobbiamo avere il coraggio di non capire. È il passaggio
dall'intelligenza che vuole approfondire il reale al cuore che si apre
sull'infinito.
Oggi si dice che la bellezza del credere è
l'incontro tra il Mistero e la povertà, tra la grandezza di Dio che ci
affascina e la radicale povertà dell'uomo. In certo qual modo il linguaggio di
Giobbe, che abbiamo ascoltato questa mattina, ci introduce in qualcosa di
grande, che ci dà tanta speranza: l'incontro tra la nostra povertà e la
grandezza di Dio. Riusciamo allora ad assumere uno stile di vita, dove noi, in
semplicità come ha fatto Giobbe, diciamo: “Ora ormai non ho più parole. Se ho
parlato prima, ora non parlo più.”
È l'atteggiamento di fondo e più autentico
per costruire il presente. Ma questo che cosa significa? Emergono tre passaggi
fondamentali, perché l'uomo davanti alla storia possa trovare il criterio con
il quale costruire il proprio istante: ascoltare – ruminare - e nello stesso
tempo, cercare di collocare l'esistenza nell'infinito. Ecco perché è
interessante il rapporto che questa mattina possiamo stabilire tra il testo di
Giobbe e il brano evangelico (Mc
12,28b-34). Ascoltare - ruminare - aprire orizzonti: è un trinomio che
nella nostra esistenza dovrebbe renderci particolarmente sensibili al dramma
della sofferenza.
ASCOLTARE
Innanzitutto: ascoltare! Davanti ai dubbi di
Giobbe, Dio si rivela grandioso. Sono molto belle le descrizioni che l'autore
del libro Giobbe ci offre della grandezza di Dio. Allora l'uomo entra in un
silenzio di ascolto, per lasciarsi raggiungere dalla rivelazione della
grandezza inesauribile del divino. L'uomo vuole immediatamente risposte, il giusto
apre il cuore all’invadenza di una luce che gli permette di respirare.
Credo che questo primo atteggiamento di
Giobbe sia molto importante: quell’ascolto per lui è vedere nelle parole di Dio
la bellezza del creato. E l’ascolto è sempre una povertà che si apre sul
Mistero. Ecco perché oggi si dice con insistenza, davanti ai grossi
interrogativi della vita, che dobbiamo riconoscerci poveri, raggiunti da
qualcosa di grande che determina fino in fondo il senso della nostra esistenza.
Poiché Giobbe è un ricercatore del senso della vita, è un assetato di verità,
ascolta. Non è importante capire, è importante aprire l'esperienza del proprio
cuore all'invadenza dell'ineffabile.
RUMINARE
Il secondo passaggio, per noi difficile, è
meditare, ruminare intensamente questa divina rivelazione, passare dalla nube
della non conoscenza al cuore che sta meditando la bellezza della presenza
divina. Quando l'uomo sa gustare la presenza del divino, nel suo intimo nasce
il fermento della speranza. Dicevo che occorre passare dalla ragione al cuore:
è un passaggio di metodo fondamentale. La ragione vuole capire, il cuore sa
accogliere. Nel momento in cui noi accogliamo come Giobbe il rivelarsi della
bellezza di Dio, il cuore diventa coraggioso, diventa ricco di speranza, si lascia
illuminare.
È quella conversione che è fondamentalmente
il passaggio dall'uomo che si rinchiude nell’io della sua ricerca, all’uomo che
si apre sull'infinito di Dio. È il bello della grandezza di Dio. Quando noi
entriamo nella profondità della ricerca, la nostra esistenza si apre sul
mistero di Dio, che il cuore ricerca continuamente. Riscopriamo allora che la
vita è una continua purificazione del nostro modo di concepire Dio.
COLLOCARE
LA PROPRIA ESISTENZA NELL’INFINITO DI DIO
Dicevamo la settimana scorsa che la grande
sofferenza di Giobbe era causata dall'insieme delle idee su Dio che i suoi tre
amici e il giovane Eliu gli presentavano. La bellezza è superare le idee, i
concetti, le comprensioni, per avere un cuore aperto sull’ineffabile, attraverso
la purezza del cuore. La storia è una purificazione continua, attraverso
l'intelligenza delle emozioni e i palpiti del cuore. La vita allora ci conduce
ad avere occhi veramente nuovi: la purificazione del cuore rende l'occhio
sempre più attento alla grandezza del Mistero. Quando l'uomo avverte questa
grandezza, si apre sull'infinito. È un naufragare nel silenzio di Dio, dove la
persona riscopre l'ineffabilità che non ha più bisogno di parole, ma solo di
una musicalità esistenziale, che apre il cuore sulla bellezza.
Sicuramente, per entrare in questa visione
dobbiamo imparare a concepire la vita in un certo modo. L'uomo contemporaneo è
chiamato a correre istintivamente in tutto quello che è e che fa e non sa più
gustare la bellezza di lasciarsi purificare. Davanti ai dubbi si innervosisce,
davanti ai dubbi il credente si lascia purificare. Con questo atteggiamento noi
possiamo lentamente lasciarci aprire sull'orizzonte infinito, in una ricerca
che la storia ci porta a costruire ogni giorno.
La storia, lo accennavamo anche venerdì
scorso, è una grande scuola divina, dove gradualmente ci apriamo sulla realtà
del Mistero. Infatti, se noi riflettiamo attentamente sulla conclusione
dell'esperienza di Giobbe, secondo il brano che abbiamo ascoltato, osserviamo
che egli non risolve il suo problema. I suoi interrogativi rimangono. È l'uomo
che nella sua umiltà sa perfettamente percepire che non riesce ad entrare nella
profondità dell'esistenza, ma tuttavia, davanti al Dio che si rivela nella
meravigliosa teofania da cui si sente avvolto, acquista la forza e la speranza
per costruire il proprio cammino.
AVVOLTI
DA UNA GRANDEZZA CHE ILLUMINA IL CUORE
Il grande metodo al quale accennavo
all'inizio è avere il coraggio di non sapere, di non conoscere, di vedere Dio
indefinibile. Se consideriamo tutti gli aggettivi, che la storia ha attribuito
a Dio, ci accorgiamo che sono di tipo negativo: assoluto, infinito,
imperscrutabile, ineffabile. Sono tutte parole con le quali noi esprimiamo il
limite del nostro pensiero, per essere avvolti da una grandezza che illumina il
cuore. Quando il cuore si lascia illuminare, nasce il desiderio di cercare ed è
un cercare veramente inesauribile.
Introducendo questi incontri, vi dicevo che
anche Gesù, davanti alla sofferenza, non ha dato nessuna risposta. Ogni
tentativo di risposta aumenta la sofferenza. Oggi il Signore ci dice: “Ascolta,
apri il tuo cuore all'ineffabilità di Dio e meditala intensamente! Le realtà
dinamiche del cuore si apriranno su qualcosa di grande che non capisci, ma che
ti darà il gusto di ricominciare sempre da capo”.
Questo è il cammino della fede. La fede non è
capire, ma lasciarsi invadere da qualcosa di grande che, penetrando dentro di
noi, crea un desiderio di infinito. Allora l’uomo passa dalla ragione, che
procede con la sua logica, al cuore che canta, che diventa poeta, che sa
leggere la storia come il linguaggio di qualcosa di più grande. Se facciamo
nostra questa visione, non abbiamo paura. Anche noi in certi momenti ci poniamo
davanti al Signore come Giobbe e come lui diciamo: “La mia intelligenza non
capisce, ma la tua bellezza mi affascina. Non parlerò più, non dirò più alcuna
parola, ma la tua bellezza penetra fino in fondo nel mio cuore”. Quando noi gustiamo il bello, il bello
diventa il gusto di una mentalità divina che penetra dentro le nostre persone e
ci dà il coraggio di camminare in avanti.
L’EUCARISTIA,
CONSOLAZIONE NELL’INCOMPRENSIBILE
Ecco perché il cristiano, quando deve
affrontare gli interrogativi dell’esistenza, viene all’eucaristia e davanti al
Signore presente non fa nient'altro che lasciarsi attirare da questa grandezza
meravigliosa, per poter crescere in una grande novità di vita. Anzi, lo ripeto
perché è importante, come Giobbe diventiamo muti, come Giobbe diciamo: “Tu sei grande!”.
Spesso lo dovremmo dire con le lacrime, con il non senso, con tanti dubbi, ma:
“Tu sei grande! Sulla tua parola costruirò la mia vita; sulla tua Presenza, che
qualifica fino in fondo, attraverso la tua luce, la mia esistenza”.
L'eucaristia è la consolazione nell’incomprensibile, perché Lui viene ad
abitare in mezzo a noi.
Gesù ha risolto i punti della sofferenza
amando a 360 gradi. È entrato nel cuore e quando il cuore si sente
profondamente e intensamente amato, la vita diventa diversa. Ecco quello che
positivamente Giobbe ci dice, preparandoci a quello che ci dirà la prossima
settimana: “Entriamo nell'ineffabile bellezza di Dio!”.
Dal Libro di Giobbe (Gb 34,31-37)
A Dio si
può dire questo:
«Mi sono
ingannato, non farò più del male.
Al di là di
quello che vedo, istruiscimi tu.
Se ho
commesso iniquità, non persisterò».
Forse
dovrebbe ricompensare secondo il tuo modo di vedere, perché tu rifiuti il suo
giudizio? Sei tu che devi scegliere, non io, di', dunque, quello che sai. Gli
uomini di senno mi diranno insieme a ogni saggio che mi ascolta: «Giobbe non
parla con sapienza e le sue parole sono prive di senso». Bene, Giobbe sia
esaminato fino in fondo, per le sue risposte da uomo empio, perché al suo
peccato aggiunge la ribellione, getta scherno su di noi e moltiplica le sue
parole contro Dio».
PERCHÉ?
Giobbe ci ha espresso il suo dramma. In
quella sofferenza fisica e spirituale è nata nel suo cuore una grossa domanda:
“Perché?”. Giobbe si confronta sul dramma che sta vivendo con i suoi tre amici
e con il giovane Eliu. È molto bello questo dialogo, perché rivela che nelle
situazioni tragiche della vita emerge il vero senso del volto di Dio.
Dicevamo la settimana scorsa come l'uomo
religioso davanti ai drammi della sua esistenza metta in crisi se stesso, il
rapporto con gli altri, il rapporto con Dio. Nel caso di Giobbe è in crisi
soprattutto il rapporto con Dio, perché l'uomo antico vedeva la propria storia
nella prospettiva dell'esperienza religiosa e in lui la sofferenza è causata
dal concetto di Dio che i suoi amici gli presentano. Non è accettabile. La
sofferenza, lo ripeto, ci pone dinnanzi la domanda: “In fin dei conti chi è
Dio? Soffro, non trovo un “perché” e mi è presentato un modo di agire di Dio
che non è accettabile”. Vediamo infatti gli amici di Giobbe, ma soprattutto il
giovane Eliu, concepire Dio con le immagini dell'uomo.
Uno dei drammi nei quali l'uomo religioso può
cadere è proiettare in Dio le proprie esigenze e i propri desideri: pensa che
Dio sia come lui! È il filone che percorre l’esperienza di Giobbe: come mai la
mia esistenza è così travagliata? A ciò si aggiunge quello che dicono gli amici
e che non corrisponde a verità, soprattutto perché essi hanno una visione di
Dio così morale, così riflesso delle loro esigenze o aspettative, che non
possono non irritarlo ulteriormente.
Dicevamo l'altra volta che davanti al dramma
della sofferenza occorre stare in silenzio. Davanti a Giobbe che chiede
“Perché?”, gli amici danno letture sommamente sbagliate.
L’IMMAGINE
DI DIO
Mi viene in mente che nel Decalogo più antico
c'era il secondo comandamento che noi abbiamo tolto nell'ultima redazione
veterotestamentaria: “Non farai immagini al tuo Dio”. Il dramma della fede è
voler costruire Dio secondo le proprie aspettative. L'Antico Testamento è stato
così rigido nell'esprimere la bellezza di Dio non facendone un'immagine, perché
l'uomo è praticamente sempre tentato di guardare Dio secondo le proprie attese.
Anzi, qui entriamo nel dramma dell'uomo
religioso, il quale pensa che dialogare con Dio sia dialogare con una persona
alla pari e, quando l'uomo vuole dialogare con Dio come con un suo pari,
nascono i “Perché?” che rivelano la concezione che noi abbiamo di Dio.
Su questo sfondo dobbiamo veramente
riflettere, davanti alla sofferenza di Giobbe, per comprendere se il concetto
che noi abbiamo di Dio corrisponde a Dio.
Conosciamo l'espressione cara all'Antico
Testamento “Se noi vedessimo Dio, moriremmo”, perché la grandezza di Dio è al
di là di ogni misura. Giobbe prova dolore davanti alle risposte degli amici,
perché hanno delle visioni di Dio che non possono non farlo soffrire. Gli amici
dicono: “Perché soffre?” - “Perché è l'ira di Dio contro di te, che pensi di
essere innocente”. È una visione che tante volte si presenta nell'esperienza
religiosa. Già lo accennavamo la volta scorsa: “Mi capitano dei guai, perché ne
ho combinata qualcuna”.
Sono così tremendi gli amici, che gli dicono:
“Tu hai commesso un peccato e non lo sai, un peccato nascosto che non conosci”,
quasi che l'agire di Dio sia determinato dai peccati degli uomini. Spesso non
riusciamo a percepire fino in fondo che Dio ci ama così come siamo, a
prescindere dal fatto che siamo peccatori. Dio ama l'uomo perché è il suo
capolavoro. L'uomo storico è sempre tentato di vedere l'ira di Dio per il
proprio peccato. “Se l'uomo - dice Giobbe- non è peccatore, perché Dio mi
investe in questo modo?”.
Un’altra visione degli amici ritraduce una
mentalità, molto forte nella sua negatività, dell’uomo religioso: Dio premia i
meriti. Se un uomo è tormentato, vuol dire che non ha meriti. È il dramma della
fede, quasi che il rapporto con Dio consista nel compiere opere buone per essere
salvati. È una mentalità contrattuale. Gli amici dicono: “Hai commesso un
peccato, non hai commesso opere buone, diversamente Dio non ti avrebbe trattato
così”. In questo modo si fa una grossa offesa a Dio.
L'uomo religioso, non credente, non l’uomo giusto,
ritiene che i rapporti con Dio siano del genere “Ti do, perché tu mi dia;
faccio tante opere buone per essere salvato”. Questo offende il volto di Dio.
COME MAI AGLI
EMPI TUTTO VA BENE?
Giobbe è innamorato di Dio e, analizzando il
dialogo con i tre amici, emerge proprio la sua forte ansia di Dio, un Dio che i
suoi amici non hanno affatto capito. In lui troviamo la sua concezione diversa
di Dio: “Dio dov'è? Dio è lontano. Io ho costruito la mia vita da uomo giusto
alla presenza di Dio, come mai non Lo sento più?”. Quanta esperienza di fede si
costruisce sul sentire! Tutto questo accade sempre perché l'uomo ragiona con
Dio come se egli fosse Dio.
Soprattutto un altro interrogativo nasce in
Giobbe e anche, diciamolo, nella nostra esperienza: “Come mai agli empi tutto
va bene e a me invece, che vivo la bellezza della fede, no?”. È una concezione
retributiva che mette in crisi un’autentica esperienza di fede, quella
dell'uomo giusto che vede gli empi fiorire.
Ecco perché le riflessioni degli amici di
Giobbe ci fanno molto pensare. In esse appare il concetto che abbiamo di Dio.
In questo mi sono accorto che il libro di Giobbe è di una modernità
eccezionale. Noi ce la prendiamo con Dio, ma il Dio con il quale ce la
prendiamo è il Dio della rivelazione o è l'immagine che noi abbiamo di Dio? È
una domanda che deve entrare dentro di noi.
Alla luce di questi modi che fanno soffrire
l'uomo giusto, dobbiamo ritrovare il vero volto di Dio. Spesso noi abbiamo
preso il Dio della rivelazione come un Dio a nostra immagine e somiglianza.
DIO
PADRE
Faccio l'esempio più semplice: anche noi come
Giobbe, partendo dal principio che il Dio della rivelazione è padre, poniamo
dei punti di domanda: ma Dio è veramente nostro padre? Noi prendiamo l’immagine
delle nostre paternità umane, ma se andassimo nella profondità del mistero di
Gesù e cercassimo di cogliere il rapporto che Gesù ha con il Padre, ci
accorgeremmo che il rapporto con il Padre è sì “Ti rendo lode, Padre, Signore
del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e
agli intelligenti”, ma è anche un gridare.
È molto bello come già nella tradizione
neotestamentaria la parola Padre sia legata al verbo gridare: “Coloro che sono
guidati da Dio, costoro sono figli di Dio, ma noi non siamo figli di schiavitù,
ma della libertà, dello Spirito che grida in noi: “Abba, Padre”.
Soprattutto se guardiamo il vangelo di Marco,
nel momento che sicuramente è il più tragico, nell'Orto degli Ulivi, Gesù usa
l'espressione: “Abba, Padre, se è possibile passi da me questo calice”. Quell’
“Abba, Padre” è l'inizio di quel grido sull'albero della croce. “Perché?”.
Noi, quando parliamo di Dio Padre, non
entriamo nella profondità di tale mistero, perché interpretiamo Dio a nostra
immagine e somiglianza. La paternità di Dio è un'immagine, non un contenuto,
perché la bellezza della paternità di Dio è la sua libertà. il credente è
innamorato della libertà di Dio.
«MI
METTO NELLE TUE MANI»
Il dramma di Giobbe è un “Perché?”, che
riflette il dramma della creatura nell’esperienza dello spazio e del tempo e
noi, che ci riteniamo signori della nostra vita, vogliamo dare risposte a ogni
“Perché?”. Il dramma di Giobbe non si risolve rispondendo ai “Perché?”.
Risolviamo i nostri drammi regalandoci alla storia di Dio, che è più grande di
noi. Entrando nella sua libertà noi possiamo veramente costruire una realtà
nuova, perché Lui è il Signore.
Entriamo nella bellezza, Lui è il Signore:
rinunciamo al “perché” intellettuale, regaliamo il nostro cuore che soffre al
mistero di Dio e diciamo: “Nella tua volontà è la mia libertà”. Ecco perché il
cristiano che si trova nei drammi della vita è chiamato entrare nella libertà
di Dio. Ecco perché Giobbe, alla fine del dramma ha quella espressione: “Una
volta ho parlato, non parlerò più la seconda volta. Tapperò la bocca”.
Noi qualche volta vogliamo che Dio ci dia le
risposte come noi le vorremmo avere. Se, per ipotesi, ci desse delle risposte,
noi faremmo come Giobbe: “Non è possibile!”. La bellezza della fede è affidare
la nostra esistenza a Dio. La bellezza del cammino di Giobbe sta nel suo essere
l'uomo giusto e l’uomo giusto vive la fedeltà di Dio.
La stessa esperienza della lontananza di Dio
è un mistero di grande vicinanza: è l'uomo che si consegna in quel fascino che
è il senso portante dell'esistenza. Se siamo nelle mani di Dio, i “Perché?”
diventano il momento del salto di qualità. Il rapporto con Dio non è un
rapporto di quantità. Se vogliamo ritrovare la dinamica relazionale con Dio in
base a quello che facciamo, saremo sempre delusi o disillusi. La bellezza della
nostra esistenza è vivere il dramma dicendo: “Mi metto nelle Tue mani”.
«IN TE
RIPOSA L’ANIMA MIA»
Un fenomeno nato negli anni conciliari emerge
anche oggi nel dialogo con l'uomo moderno. Si parlava della morte di Dio. Ora
facciamo il funerale a tanti modi di concepire Dio, che ce lo rendono troppo
visibile per noi. Dobbiamo ritrovare la gioia di dire: “Nelle tue mani è la mia
vita”. In questo sta la vera libertà il cuore.
Per questa ragione dicevamo già l'altra
volta, davanti alla grandezza tragica della vita, è necessario sospendere le
parole, entrare nel silenzio e rivolgere gli occhi verso l'alto: “Alzo gli
occhi verso i monti, da dove mi verrà l'aiuto? Il mio aiuto viene dal nome del
Signore”.
Penso che Giobbe, questa mattina, ci voglia
fare riflettere: “Chi è il Dio a cui hai affidato la tua vita?”. Se riuscissimo
ad entrare veramente in questa visione, quale libertà interiore! L'uomo
naturale dice: “Perché? Non capisco. Mi allontano da te”. L'uomo credente dice:
“In Te riposa l'anima mia, da te la mia speranza, la mia salvezza. La tua
libertà nella storia è la mia libertà di cuore”.
In questo modo riusciremmo a entrare nel
dialogo con i fratelli che ci danno i loro “Perché?”. Dovremmo avere la libertà
di dire: “È un perché anche per me”. Allora, orientando nel silenzio del cuore
l'occhio verso l'alto, anche noi dovremmo come Gesù sull'albero della croce
dire: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. È il massimo atto di
libertà e in quel momento scatta la risurrezione.
Viviamo così questo terzo passaggio nella
lettura di Giobbe, per acquisire la serenità: Dio è il Signore e se Gesù è il
Signore, su di lui fondiamo le nostre scelte, in lui generiamo le nostre
speranze, con lui camminiamo nel tempo, certi che fin da adesso c’è la
risposta. Anche se non lo comprendiamo, Lui è in noi e il suo volto glorioso
sarà la grande risposta alla nostra esistenza.
CHE
SENSO HA VIVERE?
Il quadro del
libro di Giobbe che abbiamo cercato di delineare la settimana scorsa, soffermandoci
soprattutto alla cornice di tutto il testo, ci ha insegnato ad avere una
visione positiva: Giobbe è l'uomo che, essendo giusto, ha benedetto Dio ed è
stato beneficato. Tenere presente questa cornice ci aiuta a collocarci nella
tragicità del libro di Giobbe, che in parte abbiamo ascoltato nella prima
lettura, dove ci è presentata la situazione tragica dell’esistenza, perché la
vita dell'uomo sulla terra è una grande tribolazione.
Entrare in
questo passo del libro richiede che prendiamo sul serio il dramma della storia
quotidiana, prestando attenzione a un primo elemento: Giobbe a livello fisico è
veramente torturato, ma tutto ciò che è fisico riguarda l’intera persona. Non esiste una distinzione tra il dramma
fisico e il dramma interiore. Quando è in una situazione drammatica, l’uomo vi si
sente completamente avvolto e tutto diventa un punto interrogativo, tanto da
giungere a porre la domanda: “Che senso ha vivere?”. Di riflesso desidera la morte.
Quando l’uomo
è schiacciato dalla storia che lo raggiunge nella sua personalità, non riesce
più a reggere, desidera morire, perché il dramma in cui si viene a trovare è
avere compreso che la sofferenza non ha alcun senso.
IL DRAMMA INCOMPRENSIBILE DELLA SOFFERENZA
Uno degli
atteggiamenti della persona, nelle situazioni tragiche della sua vita, è
rinunciare a capire. Spesso, nei drammi
dell'esistenza, vogliamo capire, ma l'intelligenza è impotente davanti alla
tragicità della storia e, quando noi vogliamo cercare delle motivazioni, non le
troviamo.
Cito solo due
dati che, soprattutto nella cultura contemporanea, anche cristiana, emergono e
ci fanno intuire come il dramma della sofferenza sia qualcosa di
incomprensibile.
- Il dramma
degli innocenti suscita tanti interrogativi. Alla visione di determinate
condizioni, l'uomo si domanda: “Perché?”. La sofferenza dei giusti, la
sofferenza degli innocenti è un perché senza risposte. Gesù stesso, davanti al
dramma della sofferenza, non ha dato risposte: ha sofferto la sofferenza degli
uomini. Ricordiamo sempre la domanda che gli apostoli, che volevano dare una
motivazione al dramma del cieco nato, posero a Gesù. Egli rispose: “Né lui, né
i suoi genitori hanno peccato”.
- C’è anche
un altro interrogativo, che percepiamo nell’esperienza pastorale: “Quale
peccato ho commesso, perché il Signore mi abbia avvolto con questa sventura?”. La bellezza tragica in cui l'uomo si trova è
rinunciare a capire. D'altra parte, la vita non è da capire. La vita, nel suo
mistero più profondo, è da vivere in tutta la sua drammaticità.
“DOV’ERA DIO?”
L'autore del
libro di Giobbe ci pone dinnanzi a due grossi problemi: chi è Dio? - chi è
l'uomo?
Noi spesso abbiamo
della concezione religiosa una visione che non è legata alla realtà. Chi è
Dio? Ricordiamo sempre la reazione di
Papa Benedetto ad Auschwitz: “Dov'era Dio? Dov'era Dio?”. Quando entriamo nella
sofferenza, ci scontriamo con una visione di Dio tante volte a nostro uso e
consumo. È inevitabile che, davanti alla drammaticità di situazioni o eventi
incomprensibili, rivolgiamo la nostra domanda a Dio, come ha fatto Giobbe. Ha
fatto il processo a Dio!
Nello stesso
tempo, entrando in crisi dal punto di vista del nostro rapporto con Dio, entra
in crisi anche il nostro rapporto con l'uomo. Chi sono io? Una delle verità che
noi esistenzialmente siamo chiamati a fare nostra è che nei drammi
dell’esistenza siamo come Giobbe. L’uomo, davanti al dramma della vita,
bestemmia. Noi ci scandalizziamo, ma se entriamo nella profondità del cuore
dell'uomo, egli ha bisogno di dire il suo dramma e i linguaggi della vita lo
esprimono. Ricordo sempre un’affermazione del mio professore di Morale in Seminario.
Diceva che la bestemmia è un atto di fede. Noi generalmente ne abbiamo una
visione unicamente negativa ma, nel momento in cui l'uomo è all’apice della sofferenza
e considera la propria situazione esistenziale, non può non esplodere. Se guardiamo
attentamente il dramma di Giobbe, sia pure nel linguaggio poetico della
narrazione, riconosciamo che è una grande bestemmia, anche perché la fede
crolla di fronte alla fragilità dell'uomo.
L’ANGOSCIA PIU’ GRANDE: NON AVERE NESSUNO DI CUI FIDARSI
Giobbe
maledice il giorno in cui è nato. È interessante quel passaggio del libro in
cui, mentre noi davanti alla nascita di un bambino siamo pieni di gioia, lui
dice:” Maledetto quel giorno, quando fu riferito a mio padre che era nato un
bambino!”. È lo stesso dramma che cogliamo nel profeta Geremia. Ecco perché si
dice che, tra tutti i profeti, Geremia è il profeta più moderno. Per questo
motivo, quando a Cesarea di Filippo Gesù pone la domanda ai discepoli “Chi la
gente dice che io sia?”, è citato Geremia: l'uomo, quando è davanti al dramma
della sua vita, maledice il giorno in cui è nato.
È la
sensazione di tragicità che porta al nichilismo. Non val la pena vivere anche
perché, quando l'uomo è in questa drammatica situazione, percepisce un profondo
senso di angoscia e di solitudine. Ricordiamo sempre che l'uomo che vive una
tragedia è davanti a un problema per il quale non riesce a trovare soluzione, perché
si sente solo. È il dramma peggiore della sofferenza: non avere nessuno di cui
fidarsi. Giobbe, uomo giusto, tenta di fidarsi di Dio, di affidarsi a Lui, ma conclude:
“Con Dio è inutile parlare”. Questo è
uno dei momenti più tragici della vita umana: “Stare con Dio è inutile - usando
un linguaggio nostro - ha sempre ragione Lui”.
Chi è in
questa angoscia, in questa solitudine, si ritrova nella massima povertà
esistenziale: entra nella durezza della vita. Non dobbiamo meravigliarci di
questo. L'uomo di oggi è molto simile a
Giobbe: entra in una profonda sensibilità interiore, ha davanti a sé Il
mistero della vita e trova un “non senso”. Nel dramma dell'esistenza, Giobbe ci
comunica che una delle fonti tragiche della sua sofferenza sta nel non essere
capito. Pensiamo alle reazioni dei tre amici e del giovane che giunge dopo.
LA COMUNIONE TRA FRATELLI
La sofferenza
non si risolve attraverso le parole, ma attraverso la coordinata di una
comunione, animata da un profondo senso di silenzio, dove l'altro entra nella
nostra esistenza. Noi tante volte pensiamo che i discorsi risolvano le cose. Gesù
non ha risolto il problema dell'uomo sofferente, si è commosso, ha condiviso, ha
fatta sua la sofferenza dell'umanità. È interessante come Gesù pianga e pianga
fortemente davanti alla tomba di Lazzaro. Gesù non ha pianto davanti al dramma
della morte di Lazzaro, ma davanti al dramma dell'umanità e, davanti al dramma
dell’umanità, non poteva non sentire in se stesso il dramma interiore del suo
essere venuto ad assumere la tragicità della storia dell'uomo.
Il libro di
Giobbe è molto importante per un cammino di fede, perché ci rende sensibili al
dolore e ci permette di superare qualunque forma di teoria. Gesù non ha
formulato teorie, ma ha mostrato come dire all'altro, nella semplicità
ordinaria “Sei vicino a me”, non con le parole, ma con uno stile di vita di
grande comunione.
Se leggiamo
attentamente il Vangelo, troviamo un momento in cui Gesù ha vissuto veramente
questa comunione con il dramma degli uomini. Ricordiamo sempre l'orto degli ulivi,
dove egli ha sperimentato la solitudine, l'incomprensione, il senso del “non
senso” della vita. Teniamo presente una interpretazione molto interessante di
quel grido di Gesù nell'orto degli ulivi:” L’anima mia è così triste che quasi
mi toglierei la vita”. Alla nostra mentalità queste espressioni sembrano strane,
ma Gesù è diventato la realizzazione per certi versi dello stesso dramma di
Giobbe. Soffermiamoci anche sull’invocazione:” Padre, se è possibile passi da
me questo calice, non però la mia, ma la tua volontà sia fatta”. Andrebbe
divisa in due parti, perché la prima è il grido al Padre, la seconda è la sua
solitudine. Non per niente quel grido di Gesù è stato il grido sull'albero
della Croce.
LA COMPASSIONE DI GESU’
Dopo
l’analisi di questo passaggio dell’esperienze di Giobbe, credo che nasca in noi
un atteggiamento di condivisione. È bello come gli evangelisti, quando Gesù
compie un miracolo, utilizzino la parola “compassione”: Gesù è diventato la
sofferenza degli uomini e l'ha vissuta in prima persona. Allora credo che incontrare Giobbe nel suo
dramma, incontrare Gesù che fa suo il dramma degli uomini, ci porti a scoprire
che il dramma dell'umanità è qualcosa che deve penetrare nelle nostre persone. Davanti
a un cristianesimo borghese, tutto cose e tutto riti, dovremmo imparare ad
essere invece tutta comunione, attraverso quel silenzio nel quale l'uomo riesce
a condividere i drammi. Il silenzio è il linguaggio vero della fraternità, di
poveri che non si capiscono, perché c'è qualche cosa di grande e di tragico che
li avvolge, ma il silenzio permette tante volte di non bestemmiare. Ecco perché
gli psicologi dicono che davanti al dramma non dobbiamo parlare troppo di Dio. Uno
dei drammi di Giobbe, lo vedremo la prossima settimana, sono i suoi amici, che
concepiscono in un certo modo Dio, aumentando la sua sofferenza. Cerchiamo di
aggiungere questo tassello nella nostra lettura dell'esperienza di Giobbe, in
modo che riusciamo ad entrare, guardando a Gesù, nel dramma della sofferenza,
per ritrovarvi quella speranza, che non è fatta dagli sforzi degli uomini, ma
dalla comunione tra gli uomini. Dove c’è comunione c’è la speranza e c’è la
forza di vivere.
Dal Libro di Giobbe (Gb 1,18-22)Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del loro fratello maggiore, quand'ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti.
Sono
scampato soltanto io per raccontartelo».
Allora
Giobbe si alzò e si stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si
prostrò e disse: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il
Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!».
In tutto
questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto.
LA QUARESIMA, TEMPO PER RITROVARE LA NOSTRA IDENTITA’ DI DISCEPOLI
La Quaresima è un'occasione straordinaria per vivere il
nostro ordinario: è il cammino nel quale riscopriamo la bellezza di essere
discepoli. Potremmo dire che la grandezza di tale itinerario non è fare
penitenza, ma ritrovare la nostra identità di discepoli che vivono la realtà di
tutti i giorni nello stile del Vangelo.
La scelta di camminare in questo percorso quaresimale con
Giobbe richiede che decidiamo di condividere le problematiche dell'uomo di
oggi. Spesso noi abbiamo una concezione individualistica della Quaresima, così
come in genere abbiamo una visione individualistica del nostro essere
cristiani. San Leone Magno, dicendo che la Quaresima è il tempo del digiuno
solenne, intendeva affermare che il senso della Quaresima è ritrovarsi
fraternità, ritrovarsi comunità che vive il quotidiano in comunione con i
fratelli e quindi con la tragicità della realtà contemporanea. Il discepolo,
come il Maestro, assorbe il dramma della storia.
Riflettere sul mistero dell’esperienza di Giobbe è di
conseguenza riscoprire la bellezza della fraternità nelle dinamiche dei nostri
giorni. Usando un'espressione che i
sinottici utilizzano per Gesù, dobbiamo avere la “compassione” per il dramma
dell'uomo contemporaneo. Un cristiano che non ne vivesse la tragicità è un cristiano
borghese. Suscita sofferenza vedere cristiani che rimangono legati ai riti e
alle tradizioni, dimenticando il principio di fondo che meditavamo prima di
Natale: il Verbo si è fatto carne, ha assunto la storicità dell'uomo.
Ecco perché la scelta, operata da Don Davide, di seguire
alcuni passaggi del romanzo di Giobbe permette di comprendere la Quaresima,
perché sia un'apertura alla solidarietà. San Leone Magno, dicendo che essa è
tempo di penitenza solenne, voleva richiamare alla riscoperta della ecclesialità.
Ecco allora che l'esperienza di Giobbe ci avvicina al dramma dell'uomo di oggi,
il quale passa dall’indifferenza tragica alla tragicità degli avvenimenti che,
in un modo o in un altro, penetrano nella sua storia.
«GIOBBE, UOMO GIUSTO»
Oggi vogliamo soffermarci sulla inquadratura del libro di
Giobbe. Il brano che abbiamo ascoltato è solo una piccola parte di quella che
io definisco la cornice del testo biblico. Se potessimo scomporlo in parti,
l'inizio e la fine del libro corrisponderebbero alla cornice, al centro si pone
il dramma di Giobbe e, come sollievo nel dramma, troviamo la bellezza del canto
del creato.
Nel nostro cammino vogliamo partire insieme da quello che
l'autore ha messo all'inizio e alla fine del libro: la descrizione dell'uomo
giusto. In questa descrizione appare una verità: il primato di Dio. È bella
l’immagine, con la quale si apre il romanzo, che mostra Dio che si compiace di
Giobbe, l'uomo giusto. Chiama tutta la corte celeste, usiamo quest'espressione,
e dice: “Avete visto come è giusto il mio
servo Giobbe?”
Allora, ed è una cosa interessante, appare Satana, che nel
libro non è, come noi tante volte lo intendiamo, l'oppositore di Dio, ma un suo
servo. Il diavolo chiede a Dio il permesso di mettere alla prova Giobbe e Dio
gli risponde: “Fallo pure, ma non toccare
la sua persona”. Giobbe supera la prova. A questo punto Satana si rivolge
di nuovo a Dio: “Giobbe è giusto perché
non l'hai toccato nella sua carne”. È la seconda tentazione, da cui nasce
il dramma di Giobbe. Dio concede a Satana di agire.
Questa visione è importante, perché, davanti a tutte le
tendenze demoniache della nostra cultura, noi dobbiamo ritrovare la signoria di
Dio. Dio è il Signore della storia! Una delle indifferenze della cultura
odierna consiste nel non percepire il primato e la signoria di Dio e nel non
considerare il diavolo sua creatura.
Il libro di Giobbe sicuramente ci dà molta speranza, perché
ci fa intuire che il discepolo deve essere intimamente convinto che la sua
esistenza, al di là di tutte le difficoltà che genereranno anche il dramma del
secondo Giobbe, è nelle mani di Dio. Quando l'uomo ritrova questa
consapevolezza, riesce a dare senso pieno alle affermazioni che abbiamo
ascoltato: “Nudo uscii dal seno di mia
madre e nudo vi ritornerò. Dio ha dato, Dio ha tolto, sia benedetto il nome del
Signore”. È la profonda fede dell'uomo giusto, che si mantiene salda pur
nella drammaticità delle prove.
Noi ne abbiamo ascoltato solo un passaggio, ma la morte dei
figli è la conclusione di una serie di eventi tragici, però Giobbe dice: “Nudo uscii, nudo ritornerò. Il Signore ha
dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”. Più avanti
si legge: “Se dal Signore riceviamo il
bene, perché non dovremmo anche accogliere il male?”. È il senso esatto
della gratuità divina.
«POICHE’ DIO TI AMAVA, ERA NECESSARIO CHE TI METTESSE ALLA PROVA»
L'uomo che si trova nel dramma della storia, trova respiro
nella certezza della fedeltà di Dio. Ecco perché il cristiano è essenzialmente
un provato.
Quando è apparsa la nuova formula del Padre Nostro, si è
aperto un dibattito sulla parola “tentazione”, perché noi la usiamo facilmente
con una connotazione negativa, che deriva da una mentalità agostiniana. Il
termine preciso sarebbe “prova”, e quindi “non abbandonarci nella prova”. La
prova infatti è costitutiva dell'uomo che cammina nel tempo e nello
spazio.
Ricordiamo la visione sapienziale che troviamo all'inizio
del capitolo 12 della Lettera agli Ebrei: “Poiché
Dio ti amava, era necessario che ti mettesse alla prova”. La prova è la
verità di quello che abbiamo nel cuore. Uno dei nostri limiti è dimenticare che
la nostra esistenza matura continuamente, attraverso l'amore all'ordinario,
alle situazioni concrete dei nostri giorni, alle persone che la vita oggi ci fa
incontrare.
Chi ama la storia, chi ama il suo presente, è tentato,
viene messo alla prova, perché nella prova noi possiamo veramente conoscere chi
siamo. Giobbe è giusto, perché davanti alla prova ha saputo vedere il progetto
di Dio: “Il Signore ha dato, il Signore
ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”. “Sia benedetto il nome del
Signore” è l'espressione del giusto che si sente oggetto della gratuità di
Dio. In ebraico benedire è prendere coscienza dì qualcosa di meraviglioso che
Dio ci regala per il nostro bene. Per questo motivo la parola “prova” è
migliore di “tentazione”, perché la prova è per la maturazione.
Voi genitori, quando pensate ai vostri ragazzi, non dite
che forse li avete viziati troppo e quindi sono sempre molto in ritardo nella
maturazione? La prova dice la consistenza della nostra vita. Essendo Giobbe
giusto, essendo l’uomo che davanti alla tribolazione della storia ha saputo
benedire, Dio lo ha benedetto.
«CENTO VOLTE TANTO»
La conclusione del romanzo è interessante, in quanto vi si
afferma che Dio ha arricchito Giobbe. Tutto quello che era stato mandato a
monte dalle prove, gli è restituito cento volte tanto.
Ci viene all'orecchio la frase di Gesù: “Voi che mi avete seguito, avendo lasciato
tutto, ricevete cento volte tanto”. È la risposta a Pietro, che gli aveva
domandato: “A noi che ti abbiamo seguito,
che cosa prepari?”. Giobbe, giusto, alla conclusione del romanzo è
arricchito del cento per uno.
Un particolare viene evidenziato: Dio diede tre figlie a
Giobbe, non ci furono nel mondo donne più belle di loro e, particolare
interessante nell'ambito veterotestamentario, di ogni ragazza si dice il nome.
In certo qual modo l'uomo giusto, l’uomo che sa affidarsi a Dio, si lascia
coinvolgere nel suo mistero, vedendo la sua storia come la storia del Dio che
lo ama, diventa una fecondità meravigliosa.
Ecco allora che questo inizio del nostro cammino con Giobbe
è illuminato da una visione positiva, che ci prepara al drammatico sviluppo
successivo. Per affrontarlo è bene avere una corretta inquadratura. Si dice che la bellezza della cornice rende
luminoso il quadro. Se collochiamo il primo e l’ultimo capitolo di Giobbe come
cornice, incominciamo il racconto di Giobbe respirando perché, se siamo uomini
giusti, il Signore ci ricompensa cento volte tanto. Nella cultura vetero e
neotestamentaria il metro di misura è la quantità. Nella nostra cultura diremmo
che abbiamo il cento per uno nella qualità: abbiamo il gusto di essere discepoli.
Come si spiega allora che la Quaresima per molte persone è
costruita sul “Faccio, faccio, faccio”? “Hai
già ricevuto la tua ricompensa!”. La Quaresima pone al centro la qualità,
la possibilità di ritrovarsi luminosi nella nostra umanità splendente di risurrezione.
La prova nel cammino quaresimale è imparare a dire: “Nudo sono nato, nudo ritornerò, perché sono tutta grazia”.
«E IN TUTTO RENDETE GRAZIE»
“Il Signore ha dato,
il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”, perché la mia vita
è solo rendere grazie. Queste parole ci permettono di avvicinarci al racconto
di Giobbe con un atteggiamento nuovo: introdurre nella cornice di stamattina il
quadro delle prossime volte per non cadere nel pessimismo.
L'autore sacro, lo vedremo, ci aiuta a comprendere il
dramma di Giobbe, a purificare la nostra fede, a fare un passo più in là
rispetto a lui, a imparare a dire, nella nostra vita, due espressioni molto
intense di Paolo: “Per grazia sono quello
che sono” - “e in tutto rendete grazie”. Possiamo così maturare
qualitativamente nella nostra identità e affrontare la realtà di tutti i giorni
con tanta serenità, perché Dio è il Signore e anche il demonio è soggetto a
Lui.
Vediamo dunque la prova come la provvidenza divina che vuol
fare affiorare la bellezza della nostra vita. Usando un'immagine evangelica,
slamo come il chicco caduto in terra, che viene continuamente mangiato dagli
elementi chimici del terreno, la prova, perché possa apparire un germoglio
luminoso. Ecco il senso della prova. Allora, ogni volta che, pur
nell'obbedienza alla Chiesa, diremo “non
abbandonarci alla tentazione”, interiormente tradurremo: “non lasciarmi
cadere nella prova, perché tutto nella mia vita è grazia”.
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