23 ottobre 2022

XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO C –

 

Sir 35,15b-17.20-22a               2 Tm 4,6-8.16-18                Lc 18,9-14

Omelia

Gesù opera intensamente nella vita di ogni discepolo e gli fa pregustare passo passo la grandezza del suo amore, nella prospettiva della pienezza della gloria.

Nel cammino quotidiano della fede avviene nel battezzato un processo di incessante attrazione, che lo colloca sempre più nella luce divina, quella luce che deve animare e qualificare la sua storia. Specialmente nell’esperienza della preghiera questa dinamicità si rivela estremamente significativa e produttiva.

L’uomo, che desidera essere sapiente nelle scelte quotidiane, sa collocare i propri parametri esistenziali nel mistero della propria relazione con il Dio che crea, redime e santifica.  Infatti, quando il discepolo si pone della condizione della orazione, come accoglienza costante della divina presenza nella propria concreta esistenza, avverte in se stesso l’agire divino che lo stimola a lasciarsi permeare dalla gratuità che lo avvolge, lo fa esistere, lo attira a sé e lo aiuta a ritrovare se stesso. E’ il senso della parabola che oggi Gesù ci offre.

Il tempio rappresenta per eccellenza il luogo in cui abita la gloria di Dio. L’uomo, “entrando nella nube del mistero”, avverte la verità della propria condizione interiore e ritrova se stesso non solo come creatura strutturalmente limitata, ma soprattutto come creatura che è profondamente impregnata dalla condizione di peccato. Nella luce che viene dall’alto l’uomo riscopre la verità della propria esistenza.

Sicuramente una simile convinzione serena e coraggiosa della propria creaturalità lo porta ad accogliere sé stesso con tutti i propri limiti esistenziali e a porsi in relazione viva e dinamica con colui che gli può offrire consistenza per le scelte quotidiane nello scorrere della sua vicenda storica. Il salmista ci dice: Solo in Dio riposa l’anima mia, da lui la mia speranza.

Solo a chi ama essere piccolo nel mistero della grandezza divina, Dio rivela la grandezza del suo amore. La gioia della propria piccolezza, anche se peccatrice, rappresenta l’esperienza quotidiana per assaporare la grandezza inesauribile della misericordia di Dio. Ciò che conta nell’esperienza quotidiana sta nel ritrovare il coraggio di abitare nell’Amore. In tale orizzonte esistenziale l’aspetto, tuttavia, al quale Gesù vuole condurci e sul quale vuole richiamare la nostra attenzione è quello di sentirci evangelicamente peccatori. Infatti non solo siamo chiamati a prendere coscienza della nostra piccolezza, ma anche ad avvertire la condizione di non vitale comunione con la Fonte stessa della vita. Chi si pone in modo orante e contemplativo nel Mistero avverte immediatamente la fragilità della propria esistenza e l’a persona entra nella dinamica di trovarsi rigenerata per grazia.

Tale esperienza è fattibile solo nella diretta relazione con il divino. La luce, che anima la parabola odierna del pubblicano e del fariseo, scaturisce dal tempio e ha come contesto il tempio. Solo alla presenza di Dio l’uomo, che brama un’intensa purezza del cuore, ama sentirsi pura gratuità divina e si lascia condurre a riconoscere il proprio peccato. Chi entra da credete nel mistero della misericordia trinitaria gusta l’essere nuova e luminosa creatura, in una esaltante ebbrezza interiore.

Nel tempio si fa l’esperienza di un peccato che nella fede diventa luogo del darsi misericordioso di Dio che rigenera il cuore umano.

Il dramma del fariseo lo cogliamo nel fatto che egli non avverte la propria povertà esistenziale. Di riflesso si allontana dalla convinzione evangelica di non sentirsi pura grazia, con la grande tentazione del sentirsi interiormente “protagonista”. Egli infatti, nel suo atteggiamento, rivela l’incapacità di non sentirsi profondamente amato, con la conseguenza logica di saper amare la propria condizione di radicale povertà.  Dovremmo amare d’essere semplici nel cammino quotidiano, mettendo i nostri limiti nel fuoco dell’amore della incarnazione pasquale del Signore. Il pubblicano, invece, si colloca in un altro orizzonte e pone sé stesso pienamente nelle mani di Dio. Il suo atteggiamento esteriore e le parole che fioriscono dal suo cuore sottolineano la coscienza attiva della grandezza di Dio nella sua storia. Infatti la coscienza di sentirsi peccatore in una grande speranza fiorisce dal diuturno incontro con Dio.

Infatti se Dio smettesse di illuminare il cuore della creatura e di offrirle la sua fiducia nello Spirito Santo, questa non avvertirebbe mai la fecondità della presenza divina nella propria esistenza e non ne godrebbe l‘infinita misericordia. La grandezza della persona umana sta tutta nel mettersi davanti a Dio per lasciarlo operare nel proprio cuore. Infatti il linguaggio del pubblicano ritraduce la ferma convinzione d’essere sotto l’influsso dell’amore divino, che opera nel cuore umano in modo fecondo. Ogni riconoscimento del proprio peccato incarna la fecondità dell’azione divina nel cuore della creatura.

Se guardiamo attentamente l’azione divina nel cuore dell’uomo, ci accorgiamo come lo Spirito Santo illumini le profondità della nostra persona e le faccia comprendere come abbia operato scelte che non incarnavano la vocazione alla comunione con Dio e con i fratelli. E’ in Dio allora che l’uomo dice d’essere e di sentirsi peccato. Questo atteggiamento, che potrebbe sembrare in modo immediato un’esperienza negativa, tuttavia risulta un momento fecondo per proiettarsi in un itinerario di conversione, nel quale l’uomo si rende sempre più docile all’azione dello Spirito Santo.

Egli si sente, nella propria persona, la fiducia di Dio in atto.

Quando si vive tale esperienza, non viene mai meno il coraggio d’affrontare ogni avventura esistenziale per maturare nella luminosità dell’esistenza, non avendo paura neppure dell’impossibile.

Intuiamo di conseguenza che l’uomo viva da perdonato con il coraggio della fede, non temendo mai di riconoscersi peccatore, poiché tale esperienza scaturisce dalla forte e continua relazione con Dio, nel quale ama abitare quotidianamente, per essere stimolato a costruire ogni istante della propria esistenza in una continua novità di vita.

Questa condizione diventa allora la convinzione abituale che anima il cristiano per comprendere la propria esistenza nell’orizzonte divina e per crescere nella conversione.

Il risultato di un simile percorso sarà l’espressione del recupero in termini personali e consapevoli della comunione che Dio continuamente sviluppa nel cuore del discepolo. Questi vivrà la sua storia regalando quotidianamente quella speranza esistenziale, e tale vitalità spirituale rappresenterà la forza per ricominciare sempre da capo. 

In questo percorso esistenziale intuiamo l’affermazione di Gesù che il pubblicano se ne sia ritornato a casa giustificato meglio del fariseo. Chi dimora in Dio, vive una profonda luminosità spirituale che gli fa percepire contemporaneamente la sete di luce che zampilla nel suo cuore, e un intenso desiderio di abbandono progressivo del regno delle tenebre.

Questo è un itinerario che non avrà mai alcun termine, fino a quando la creatura sarà definitivamente trasfigurata nel mistero di Dio.

Il quadro parabolico che Gesù oggi ci presenta lo stiamo vivendo ora.

Anche noi siamo saliti al tempio e ci troviamo nella gloria divina, contemplando nello Spirito la presenza luminosa del Cristo. Se in questa viva e vivace relazione con il Maestro sappiamo sentirci peccatori, nella speranza che viene dall’alto, allora nel momento in cui faremo la comunione, Gesù ci donerà il suo Corpo dato e il suo Sangue versato per renderci uomini giusti, uomini che crescono - per grazia - nella meravigliosa comunione divina. Qui viviamo ogni domenica la vivacità della nostra rigenerazione esistenziale.

Non dobbiamo mai temere nel sentirci peccatori nel mistero che ci avvolge, ma dobbiamo lasciarci invadere dalla potenza divina per maturare giorno per giorno nel desiderio d’essere progressivamente trasfigurati nel Maestro.

Ciò avverrà pienamente nella meravigliosa liturgia del cielo.

 

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