Sir 35,15b-17.20-22a
2 Tm 4,6-8.16-18 Lc 18,9-14
Omelia
Gesù opera intensamente nella vita
di ogni discepolo e gli fa pregustare passo passo la grandezza del suo amore,
nella prospettiva della pienezza della gloria.
Nel cammino quotidiano della fede
avviene nel battezzato un processo di incessante attrazione, che lo colloca
sempre più nella luce divina, quella luce che deve animare e qualificare la sua
storia. Specialmente nell’esperienza della preghiera questa dinamicità si
rivela estremamente significativa e produttiva.
L’uomo, che desidera essere
sapiente nelle scelte quotidiane, sa collocare i propri parametri esistenziali
nel mistero della propria relazione con il Dio che crea, redime e
santifica. Infatti, quando il discepolo
si pone della condizione della orazione, come accoglienza costante della divina
presenza nella propria concreta esistenza, avverte in se stesso l’agire divino
che lo stimola a lasciarsi permeare dalla gratuità che lo avvolge, lo fa
esistere, lo attira a sé e lo aiuta a ritrovare se stesso. E’ il senso della
parabola che oggi Gesù ci offre.
Il tempio rappresenta per
eccellenza il luogo in cui abita la gloria di Dio. L’uomo, “entrando nella nube
del mistero”, avverte la verità della propria condizione interiore e ritrova se
stesso non solo come creatura strutturalmente limitata, ma soprattutto come
creatura che è profondamente impregnata dalla condizione di peccato. Nella luce
che viene dall’alto l’uomo riscopre la verità della propria esistenza.
Sicuramente una simile convinzione
serena e coraggiosa della propria creaturalità lo porta ad accogliere sé stesso
con tutti i propri limiti esistenziali e a porsi in relazione viva e dinamica
con colui che gli può offrire consistenza per le scelte quotidiane nello
scorrere della sua vicenda storica. Il salmista ci dice: Solo in Dio riposa l’anima mia, da lui la mia
speranza.
Solo a chi ama essere piccolo nel
mistero della grandezza divina, Dio rivela la grandezza del suo amore. La gioia
della propria piccolezza, anche se peccatrice, rappresenta l’esperienza
quotidiana per assaporare la grandezza inesauribile della misericordia di Dio.
Ciò che conta nell’esperienza quotidiana sta nel ritrovare il coraggio di
abitare nell’Amore. In tale orizzonte esistenziale l’aspetto, tuttavia, al
quale Gesù vuole condurci e sul quale vuole richiamare la nostra attenzione è
quello di sentirci evangelicamente peccatori. Infatti non solo siamo chiamati a
prendere coscienza della nostra piccolezza, ma anche ad avvertire la condizione
di non vitale comunione con
Tale esperienza è fattibile solo
nella diretta relazione con il divino. La luce, che anima la parabola odierna
del pubblicano e del fariseo, scaturisce dal tempio e ha come contesto il
tempio. Solo alla presenza di Dio l’uomo, che brama un’intensa purezza del
cuore, ama sentirsi pura gratuità divina e si lascia condurre a riconoscere il
proprio peccato. Chi entra da credete nel mistero della misericordia trinitaria
gusta l’essere nuova e luminosa creatura, in una esaltante ebbrezza interiore.
Nel tempio si fa l’esperienza di
un peccato che nella fede diventa luogo del darsi misericordioso di Dio che
rigenera il cuore umano.
Il dramma del fariseo lo cogliamo
nel fatto che egli non avverte la propria povertà esistenziale. Di riflesso si
allontana dalla convinzione evangelica di non sentirsi pura grazia, con la
grande tentazione del sentirsi interiormente “protagonista”. Egli infatti, nel
suo atteggiamento, rivela l’incapacità di non sentirsi profondamente amato, con
la conseguenza logica di saper amare la propria condizione di radicale povertà.
Dovremmo amare d’essere semplici nel
cammino quotidiano, mettendo i nostri limiti nel fuoco dell’amore della
incarnazione pasquale del Signore. Il pubblicano, invece, si colloca in un
altro orizzonte e pone sé stesso pienamente nelle mani di Dio. Il suo
atteggiamento esteriore e le parole che fioriscono dal suo cuore sottolineano
la coscienza attiva della grandezza di Dio nella sua storia. Infatti la
coscienza di sentirsi peccatore in una grande speranza fiorisce dal diuturno
incontro con Dio.
Infatti se Dio smettesse di
illuminare il cuore della creatura e di offrirle la sua fiducia nello Spirito
Santo, questa non avvertirebbe mai la fecondità della presenza divina nella
propria esistenza e non ne godrebbe l‘infinita misericordia. La grandezza della
persona umana sta tutta nel mettersi davanti a Dio per lasciarlo operare nel
proprio cuore. Infatti il linguaggio del pubblicano ritraduce la ferma
convinzione d’essere sotto l’influsso dell’amore divino, che opera nel cuore
umano in modo fecondo. Ogni riconoscimento del proprio peccato incarna la
fecondità dell’azione divina nel cuore della creatura.
Se guardiamo attentamente l’azione
divina nel cuore dell’uomo, ci accorgiamo come lo Spirito Santo illumini le
profondità della nostra persona e le faccia comprendere come abbia operato
scelte che non incarnavano la vocazione alla comunione con Dio e con i fratelli.
E’ in Dio allora che l’uomo dice d’essere e di sentirsi peccato. Questo
atteggiamento, che potrebbe sembrare in modo immediato un’esperienza negativa,
tuttavia risulta un momento fecondo per proiettarsi in un itinerario di
conversione, nel quale l’uomo si rende sempre più docile all’azione dello
Spirito Santo.
Egli si sente, nella propria
persona, la fiducia di Dio in atto.
Quando si vive tale esperienza,
non viene mai meno il coraggio d’affrontare ogni avventura esistenziale per
maturare nella luminosità dell’esistenza, non avendo paura neppure dell’impossibile.
Intuiamo di conseguenza che l’uomo
viva da perdonato con il coraggio della fede, non temendo mai di riconoscersi
peccatore, poiché tale esperienza scaturisce dalla forte e continua relazione
con Dio, nel quale ama abitare quotidianamente, per essere stimolato a
costruire ogni istante della propria esistenza in una continua novità di vita.
Questa condizione diventa allora
la convinzione abituale che anima il cristiano per comprendere la propria
esistenza nell’orizzonte divina e per crescere nella conversione.
Il risultato di un simile percorso
sarà l’espressione del recupero in termini personali e consapevoli della
comunione che Dio continuamente sviluppa nel cuore del discepolo. Questi vivrà
la sua storia regalando quotidianamente quella speranza esistenziale, e tale
vitalità spirituale rappresenterà la forza per ricominciare sempre da capo.
In questo percorso esistenziale intuiamo
l’affermazione di Gesù che il pubblicano se ne sia ritornato a casa
giustificato meglio del fariseo. Chi dimora in Dio, vive una profonda
luminosità spirituale che gli fa percepire contemporaneamente la sete di luce
che zampilla nel suo cuore, e un intenso desiderio di abbandono progressivo del
regno delle tenebre.
Questo è un itinerario che non
avrà mai alcun termine, fino a quando la creatura sarà definitivamente
trasfigurata nel mistero di Dio.
Il quadro parabolico che Gesù oggi
ci presenta lo stiamo vivendo ora.
Anche noi siamo saliti al tempio e
ci troviamo nella gloria divina, contemplando nello Spirito la presenza luminosa
del Cristo. Se in questa viva e vivace relazione con il Maestro sappiamo
sentirci peccatori, nella speranza che viene dall’alto, allora nel momento in
cui faremo la comunione, Gesù ci donerà il suo Corpo dato e il suo Sangue
versato per renderci uomini giusti, uomini che crescono - per grazia - nella
meravigliosa comunione divina. Qui viviamo ogni domenica la vivacità della
nostra rigenerazione esistenziale.
Non dobbiamo mai temere nel
sentirci peccatori nel mistero che ci avvolge, ma dobbiamo lasciarci invadere
dalla potenza divina per maturare giorno per giorno nel desiderio d’essere
progressivamente trasfigurati nel Maestro.
Ciò avverrà pienamente nella
meravigliosa liturgia del cielo.
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