19 giugno 2016

XII DOMENICA T.O. - Anno C -

2Re 17,5-8.13-15.18       Gal 3,26-29             Lc 9,18-24
OMELIA
L'esperienza di Gesù, man mano camminiamo nel tempo alla luce della sua presenza, ci fa comprendere il mistero che avvolge la nostra vita.

Gesù questa mattina anche a noi, come ai discepoli, rivolge la domanda: e voi chi dite che io sia?

Questa è una domanda che percorre continuamente la nostra esistenza quando vogliamo verificare la profondità della nostra esperienza di fede ed è interessante come l'evangelista Luca ponga la domanda in un contesto di preghiera, in un contesto dove l'uomo trascende le dialettiche dell'intelligenza per entrare in una fusione di cuore con il Maestro. La bellezza delle domande di Gesù si risolve solo in una disponibilità totale ed assoluta nell'azione di Dio. Ed è la professione di fede che caratterizza il cristiano nel cammino della sua esistenza.

Il cristiano è una professione vivente di fede del mistero di Gesù.

Ma cos'è, in un contesto orante, una professione di fede?

Spesse volte quando utilizziamo la parola “professione di fede”, andiamo inevitabilmente a un discorso di tipo letterario… “io credo in Dio Padre onnipotente...”, ma se guardiamo attentamente il senso di quell'espressione “professione di fede”, siamo davanti a un altro orizzonte: la formula letteraria è l'espressione emergente di una vitalità personale. La professione di fede è un simbolo di una vita interiore che elabora una dimensione spirituale che diventa poi linguaggio.

La professione di fede non è una espressione letteraria, è il canto di un cuore ricolmato da una presenza!

L'evangelista Luca ci colloca la domanda: “e voi chi dite che io sia?” in un contesto di preghiera, in un contesto in cui l'uomo è totalmente invaso dalla divina Presenza, è imbevuto del suo Spirito e non può non cantare!

La fede non si dice.. la fede si canta! La bellezza della fede è la pienezza della realizzazione del cuore dell'uomo e questo ce lo ha detto molto bene l'apostolo Paolo nel brano che abbiamo ascoltato e che riproduce la bellezza della fede.   La professione di fede, è l'espressione di ciò che noi viviamo abitualmente e l'apostolo Paolo ce l’ha detto molto bene: dobbiamo coniugare fede ed esperienza battesimale per essere rivestiti di Cristo.

Tre sono i passaggi che qualificano veramente la dinamica della fede e che ci deve caratterizzare: la fede è il gusto di Cristo che abita in noi.

È molto bello come l'apostolo Paolo nella lettera agli Efesini ci offra quella bella pennellata: “Cristo abiti, mediante la fede, nei vostri cuori!”

La fede è gustare la creatività personale di Gesù nella nostra persona.

La fede è un cuore abitato da qualcosa di ineffabile... Quando l'uomo vuole entrare nella vita della fede, deve sospendere l'intelligenza, aprire il cuore e lasciarlo abitare da una persona.

La professione di fede è un simbolo, è un invisibile che diventa linguaggio, è una interiorità abitata che diventa espressione. In questo Paolo  - che è un innamorato di Gesù - non può non partire da questa premessa: l'essere battezzati è nient'altro che dire, con il linguaggio della vita, la mentalità di Gesù. Infatti il cuore, quando è vero nelle sue pulsazioni interiori se non quando diventa il linguaggio della vita? La vitalità interiore è veramente personalizzata quando diventa la vita con la molteplicità dei suoi linguaggi.

Noi, tante volte,  quando sentiamo la parola battesimo andiamo subito al sacramento. Paolo è più profondo!

Il battesimo è una vivente relazione dove l'uomo, nel cammino della vita, dice continuamente la signoria di  Gesù. Vivere di fede è costruire la storia nell’0esuberanza di una presenza.

Paolo, per aiutarci ad approfondire questa vitalità esistenziale usa un'altra parola: l'essere “vestiti” o “rivestiti”. Quando  sentiamo questa espressione, dobbiamo andare alla visione della rivelazione scritturistica dove il vestito non è un abito, ma è il linguaggio di una relazione. Guardiamo sempre (e forse l'abbiamo già citata questa esperienza giudaica) a come si comportavano gli studiosi giudaici quando bisognava interpretare la finale del capitolo secondo della Genesi. Qui si afferma che i due progenitori, Adamo ed Eva, erano nudi e non se ne accorgevano, ma non erano nudi! Erano rivestiti dell'abito della gloria di Dio, perché quell'abito, della gloria di Dio, rendeva luminosa la loro corporeità; l'abito è una presenza che entra nel profondo dell'uomo e lo riveste. Ecco perché, quando Adamo ed Eva sono cacciati dal paradiso terrestre, Dio confeziona per loro due abiti  - che sono gli abiti dei leviti - di quelli che vivono ogni giorno della fedeltà di Dio. In questa luce scritturistica, intuiamo che l'uomo, in qualunque situazione storica possa ritrovarsi, è sempre impregnato della fedeltà di Dio. Se non ha più quell'abito di gloria del paradiso terrestre, ha l'abito della fedeltà di Dio che è speranza. L'abito è il linguaggio storico di quello che avviene nell'interiorità dell'uomo e, allora, intuiamo in questa visione come la professione di fede sia nient'altro che l'espressione del lasciarci plasmare, ogni giorno, dalla potenza creatrice di Gesù, e l'uomo che vive questa meravigliosa esperienza della professione di fede è la creatività vivente di Dio.

Quando l'uomo fa questa scelta di fondo della sua vita e quindi gusta questa relazione intima con il Maestro che lo trasfigura continuamente, accoglie il tutto e chi accoglie il tutto accoglie anche il particolare.

Se guardiamo attentamente il Vangelo, spesse volte, veniamo catturati o dalla confessione di fede di Gesù che parla sua Pasqua o dalle espressioni con le quali il brano evangelico si conclude, dimenticando che queste espressioni si riescono a cogliere solo da innamorati da Gesù e ne accolgono in pienezza il mistero, non perdendosi nei particolari. Quante volte il cristiano appesantisce la sua esistenza perché deve portare la croce. L’interrogativo che dobbiamo porci è questo: portiamo la croce con tutta la sua pesantezza deprimente o stiamo seguendo il Maestro, cantandone il mistero di un amore veramente incomprensibile?

Nelle dinamiche delle relazioni interpersonali, quando uno accoglie il tutto che è l’altro, nel tutto accoglie anche il particolare, un determinato momento della sua esistenza. Chi non è innamorato di Gesù non capisce la croce, chi è innamorato di Gesù capisce la croce; chi ama il tutto di una persona ne accoglie tutta l'esistenza con tutto ciò che la può caratterizzare. Questo avviene anche nell'esperienza quotidiana. Quando intensamente si è innamorati di una persona, non si guardano mai i difetti o le esigenze, c'è il rapporto che qualifica la persona e, in quel rapporto amoroso, si accoglie il tutto!

Così è nella fede!

La professione di fede è vivere questa vitalità di Cristo che permea tutto il sensitivo, il razionale, l'intellettuale, tutto ciò che è attivo nella nostra persona. Noi, in questo momento, stiamo vivendo questo mistero: la vita di Gesù in tutta la sua ricchezza e verità.

È molto bello come nella Chiesa del primo millennio, durante la celebrazione eucaristica non si recitava mai la professione di fede, il Credo. La  motivazione è molto semplice. La professione di fede espressa dal Credo apparteneva al linguaggio proprio della celebrazione battesimale. La vera professione di fede era la preghiera eucaristica dove, mentre si canta la fede gustiamo la fecondità di Dio, il pane che diventa corpo, il vino che diventa sangue o meglio, il corpo diventa pane, il sangue diventa vino perché l'uomo che nella sua vita canta la fede è un uomo sempre trasfigurato. Nel cantare la fede ha luogo quella creatività divina che dà all'uomo la bellezza e la capacità di camminare.

Gesù questa mattina ci ha radunato nell'eucaristia perché la bellezza dell'eucaristia si costruisce nel cantare la fede, dove questa fede diventa così trasfigurante per le nostre persone da regalarci il gusto della vita. Ogni volta che nella nostra esistenza nascono degli interrogativi Gesù ci dice: entra nell'orizzonte della libertà del Padre che è la preghiera, spalanca la tua vita alla mia persona e, in quel momento, il buio diventa luce, la paura diventa coraggio e il non senso diventa canto di vita! Allora credo che Gesù, questa mattina, nella bellezza della celebrazione voglia veramente aiutarci a superare quelle letture teoretiche, pragmatiche, sensitive che abbiamo della fede, che tante volte sono quei corollari che oggi ci sono e domani non ci sono più, essendo manifestazioni o linguaggi semplicemente culturali. Ritroviamo la bellezza della fede come essere abitati dalla reale presenza del Risorto, e quando il cuore è abitato da tale affascinante Mistero, il cuore diventa signore davanti alle situazioni contingenti. Questa è la bellezza della fede, questa è l'esperienza che vogliamo vivere in questa eucaristia in modo che, vivendo in pienezza questa divina presenza, possiamo dire: è bello credere perché io non sto portando una croce, ma il Cristo in me mi fa vivere il suo mistero di salvezza.

La professione di fede celebrata nei divini misteri è la luce calorosa che dà energia al nostro corpo e al nostro spirito per maturare ogni giorno nel dono d’essere uomini luminosi in Cristo Gesù.
 
 
 
 
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