Dt 8,2-3.14-16 1Cor 10,16-17 Gv 6, 51-58
OMELIA
Il cammino che la Chiesa ci ha fatto
percorrere nel tempo della Pasqua ci ha permesso di comprendere come Gesù sia
veramente in mezzo a noi. La gioia del discepolo è gustare questa presenza, ma
l'uomo religioso è sempre tentato da una visione soggettivistica della propria
fede, soprattutto nella cultura odierna dove egli pensa di essere verità a se
stesso. Gesù, conoscendo la tentazione alla quale la creatura umana poteva
essere soggetta, ci dà il suo testamento. Il mistero eucaristico è il
testamento di Gesù, è la sua presenza reale nel cammino della Chiesa, è quel
passaggio con il quale dovremmo continuamente confrontarci nella nostra vita,
spalancando la nostra esistenza alla presenza del Maestro, per poter gustare
sacramentalmente la sua persona. Il mistero eucaristico è la sua presenza nella
realtà della convivialità attraverso il segno del pane e del vino. Il Risorto è
realmente presente e attivo nella storia dell'intera umanità. Davanti a questo
mistero, la parola che abbiamo ascoltata questa mattina ci aiuta ad
approfondire cosa voglia dire la presenza reale del Signore, risorto con i
segni della passione, nel mistero eucaristico. Il Vangelo che abbiamo ascoltato
ci stimola ad entrare in questa visione, poiché l'evangelista Giovanni,
attraverso l'immagine sacramentale del mangiare e del bere, vuole aiutarci a
scoprire la sorprendente bellezza e la luminosa profondità di una simile
presenza.
Innanzitutto, si rivela importante comprendere
cosa voglia dire “mangiare e bere”. Quando ci accostiamo ai linguaggi storici,
dobbiamo essere profondamente convinti che essi hanno sempre un risvolto
simbolico. Nella superficialità nella quale noi ci troviamo a vivere, non
sempre ci chiediamo quale sia il significato dei gesti che compiamo e quale sia
il valore dei linguaggi con i quali comunichiamo. Se andiamo alla scuola di
Giovanni, mangiare e bere sono due verbi che sottolineano la volontà di
accogliere nella fede e nel credere la persona di Gesù. È quel fascino di Gesù
che penetra in noi attraverso il linguaggio del mangiare e del bere. Se noi ci
accostiamo alla profondità delle nostre relazioni, ci accorgiamo che la bellezza
di una relazione è la convivialità esistenziale: il nostro “essere” si realizza
nell’”essere insieme”. E l’essere insieme è il cammino che ci porta in modo
progressivo a diventare una cosa sola nella reciproca identità personale. Il mangiare
e il bere sono la gioia della relazionalità. Ecco perché Gesù nel discorso che
abbiamo ascoltato, quando parla di mangiare e bere, mette subito in luce che la
nostra vita non può costruirsi senza la relazione credente con lui. Uno dei
drammi della fede è aver troppo cosificato le parole di Gesù. Gesù ha detto che
dobbiamo “mangiare e bere la sua persona": il mistero della sua vita, la
gioia di essere in rapporto reale con lui. Senza un fascino esistenziale non ci
sono sacramenti, ci sono solo riti. Ecco perché il primo elemento che dobbiamo
scoprire è il significato del mangiare e del bere, come sacramenti di una
relazionalità, Dal punto di vista umano c'è un segno meraviglioso che dice
questa verità del mangiare e del bere: il bacio. Il bacio è il linguaggio della
relazionalità, è il mistero dell'essere in accoglienza dell’altro in tutta la
sua verità. Quando noi leggiamo i testi di Paolo, è molto bello come nelle sue
lettere l'apostolo dica sempre, nel saluto conclusivo: “Io vi saluto con il
bacio santo”. È una intensa espressione della relazionalità della fede. Infatti,
quando entriamo in chiesa abbiamo questa sete di un rapporto profondo con lui,
perché senza di lui non possiamo vivere. Gesù non è una presenza statica, non è
una statua di marmo, è il soggetto di una relazione interpersonale, che si pone
nella sua massima valenza nel mistero eucaristico. Il primo elemento che Gesù
ci vuole regalare questa mattina, per farci entrare veramente nel suo mistero,
è che noi non possiamo vivere senza di lui. Non per niente tutto questo grande
discorso di Gesù termina con quella bella espressione di Pietro, che è anche
l'espressione della vita della Chiesa e di ciascuno di noi: “Signore da chi
andremo? Tu hai parole di vita eterna. Noi sappiamo e crediamo che tu sei il santo
di Dio”. Qui si manifesta la gioia della fede di appartenere al Signore.
Perché una simile verità possa diventare
vita della nostra vita ci viene donato il mistero eucaristico, che è la
sedimentazione di un linguaggio d'amore tra Gesù e noi, dove l'idea del
mangiare-bere vuol significare la condivisione di una meravigliosa
relazionalità intima. Quando si è credenti, l'Eucaristia è mangiare-bere il
Signore nella potenza della fede, che diventa sacramento. Sono quegli occhi che,
affascinati dal Maestro, stanno aspettando la convivialità, per gustare l'intimità
con lui! È una cosa questa che spesse volte non evidenziamo, noi semplicemente diciamo
che “andiamo a fare la comunione”. Ma cos'è la comunione se non il desiderio di
intimità dove il Cristo è il Signore del cuore, della mente, della nostra
sensibilità, tanto da diventare il coraggio esistenziale di vivere di lui? La
sua presenza nell'Eucarestia è per la semplicità del cuore innamorato e la
bellezza di questa relazionalità ne è la vera anima. Quanti cristiani ripetono
nella loro vita quella bella espressione dei martiri di Abitene: “Senza la
convivialità del Signore non possiamo vivere!”? Se noi entriamo in questa
convivialità, sappiamo di esserne totalmente rifatti. Uso un linguaggio che
vuol ritradurre in modo semplice e chiaro quello che Gesù aveva intenzione di
dire nel discorso di Giovanni e nel gesto dell'ultima cena. Quando ci si vuole
bene, è normale mangiare insieme, ma la cosa più importante è il contenuto del pasto
o la bellezza della reciprocità del mangiare? La realtà più profonda quando c'è
un intenso rapporto di fede è mangiare con l'Amato del cuore, per cui non
interessa quello che si è mangiato, ma la gioia di essere rimasti “con “,
lasciandoci trasfigurare dalla sua presenza. E allora Gesù diventa Pane e Vino,
perché quel momento di relazione eccezionale qualifichi tutta la nostra personalità.
Usando il linguaggio di Paolo nella lettera inviata ai Galati, possiamo
veramente dire. “non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”. In
Giovanni troviamo: “Io in voi e voi in me”: è una vita innamorata di Gesù che
diventa convivialità eucaristica.
Di conseguenza dobbiamo sempre ricordare
che noi dobbiamo innanzitutto "mangiare il Signore" con gli occhi del
cuore. Gli innamorati si mangiano con gli occhi e allora, con gli occhi
innamorati della fede, apriamo la bocca e lui diventa vita della nostra vita.
Entriamo in questa reazione trasfigurante che determina la nostra storia: ecco
la grandezza della festa di oggi, Il Signore sa che abbiamo bisogno di segni
concreti, perciò il Risorto, che è in mezzo a noi, è Gesù di Nazareth che nella
gloria continua a farsi mangiare nella fede, attraverso il suo mangiare con noi
nel sacramento. Se riusciamo a entrare in questa affascinante avventura, ecco che
l'istante è già eternità beata. Non l'ha detto Gesù poc'anzi? “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io lo risusciterò
nell’ultimo giorno”. E’ lui il nostro tutto! La bellezza di accostarsi alla
convivialità è risorgere continuamente nel morire quotidiano. Usando un
linguaggio ovviamente paradossale, la bellezza di una eucarestia è entrare in un
infarto d'amore al termine della celebrazione, perché è bello stare per sempre
con il Signore. Non lo affermiamo sempre, quando diciamo: “in attesa della tua
venuta”? E allora viviamo questa festa da innamorati di Gesù. Siamo entrati in
chiesa da innamorati, desiderando vedere l'Amato del nostro cuore, in una
convivialità dove lui ci riempie di sé, donandoci la bellezza e il gusto della
vita. Chiediamo allo Spirito Santo di farci gustare questa bellezza, di farci
gustare la soavità del Signore e, anche se ci sentiamo aridi, distratti, poveri,
non rinunciamo alla sua soavità, perché in questa soavità siamo creature
rifatte. Cantiamo questa gioia, in modo che la nostra storia sia la storia di
Gesù, vivente in noi oggi.
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