26 aprile 2020

III DOMENICA DI PASQUA - ANNO A –


At 2,14.22-33                    1 Pt 1,17-21            Lc 24,32                   

OMELIA

12 aprile 2020

10 aprile 2020

NEL SILENZIO ENTRIAMO NEL MISTERO

Meditazione di don Antonio Donghi
Poiché erano vicini i giorni della Pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Quando ormai Satana aveva messo in corpo a Giuda di tradirlo, Gesù, sapendo che tutto gli era stato messo nelle mani e che dal Padre veniva e al Padre tornava, si alzò da tavola, depose le vesti, si cinse con un asciugatoio, prese un catino con l’acqua e lavò i piedi” (Gv13,1ss).
 Credo che Giovanni ci voglia introdurre in un mistero altissimo, che solo nel silenzio riusciamo a gustare. “Poiché era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”. L’eucaristia è Cristo che ama, è Cristo che si fa amare, Cristo che continua ad amare, facendo vivere la comunità della sua oblazione e nella sua oblazione. Gesù ha detto agli uomini che li amava, affidandosi, in radicale obbedienza amativa, nelle mani del Padre.  Poiché il Padre gli aveva messo tutto nelle mani e dal Padre usciva e al Padre tornava”: il Padre ha regalato l’umanità ed il Figlio ha piena coscienza di questo grande evento. Secondo la Chiesa orientale, Dio Padre ha creato l’uomo avendo come modello il Verbo incarnato. L’incarnazione era già nell’eterno progetto del Padre.
Accostiamoci alla preghiera sacerdotale di Giovanni: “Ho fatto conoscere il tuo nome a quelli che mi hai dato, erano tuoi e li hai dati a me. Ora lascio il mondo e li consegno a te, o Padre” (Gv 17). È bellissimo! Gesù è consapevole di aver avuto in dono l’uomo, ma sta tornando al Padre: come può continuare a costruire l’uomo secondo il progetto di Dio? Il rito della lavanda dei piedi lo afferma chiaramente: “Poiché il Padre gli aveva messo tutto nelle mani e dal Padre veniva e al Padre tornava, si alzò da tavola”. Ascoltando “si alzò da tavola”, pensiamo facilmente al rito dell’ospitalità prima del pasto. Nel racconto giovanneo tutti però erano già a tavola, quindi il gesto ha un altro significato. Occorre entrare nel simbolismo di Giovanni. L'affermazione “si alzò da tavola” si richiama al prologo: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio... E il Verbo si fece carne”. Prima della preghiera sacerdotale il Maestro dice: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo, ora lascio il mondo e torno al Padre” (8 16,28). Gesù che si alza da tavola è colui che, rimanendo nella comunione gloriosa con il Padre, assume la dinamica umana. “Si alzò da tavola, depose le vesti, si cinse di un asciugatoio”. Un simile atteggiamento corrisponde a “Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare”: è la casa e la vita in casa come famiglia si costruisce attorno ad un tavolo. Questo ci fa intuire che Gesù ci ha lasciato il suo testamento nella sua gestualità, perché noi potessimo entrare in essa, per lasciarci ricreare nella sua umanità ed essere veramente uomini.
 Il racconto dell’Ultima Cena del Canone Romano è eccezionale, perché è una cristologia in azione, specie se leggiamo il testo che si utilizza nella messa in Coena Domini. “In questo giorno, vigilia della sua passione sofferta per la salvezza nostra e del mondo intero, egli prese il pane nelle sue mani sante e venerabili, e alzando gli occhi al cielo a te Dio Padre suo onnipotente, rese grazie con la preghiera di benedizione, spezzò il pane, lo diede ai suoi discepoli e disse... Dopo la cena, allo stesso modo, prese questo glorioso calice nelle sue mani sante venerabili, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli e disse...”. Dobbiamo sempre tener presente il parallelismo tra questo testo del Canone Romano e l'Ultima Cena giovannea. Gesù nel lavare i piedi regala la sua personalità all’uomo, tant’è vero che in alcuni filoni della teologia russa la lavanda dei piedi è considerata un sacramento, perché Cristo trasmette la sua personalità al discepolo. Nell’atto di lavare i piedi, egli trasferisce il mistero della sua vita alla chiesa. Pietro che gli dice: “No, non mi laverai mai i piedi” è l’uomo che rifiuta di essere coinvolto nello stile amativo del Maestro: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”. Gesù immette nell’uomo il suo mistero e il suo desiderio di regalargli quello che il Padre ha pensato nei confronti dell’uomo, la sua cristificazione, per cui al diniego di Pietro replica: “Se non ti laverò, non avrai parte con me nel regno” - “Se io non rivestirò la tua persona con la mia persona, facendo di te la mia persona, non apparterrai mai all’evento del regno e non proverai gioia, pace, armonia, con tutti i frutti dello Spirito Santo”. A quel punto Pietro, avendo capito, non accetta che gli lavi soltanto i piedi, ma desidera essere lavato tutto! La lavanda dei piedi è il sacramento di Cristo, che è il grande protagonista e nella presenza di Cristo in noi, nell’evento eucaristico, ci lasciamo cristificare. Nella liturgia siro-orientale, la lavanda dei piedi è il sacramento dell’imitazione cristiana, come appare nei due verbi “lavare” e “purificare”. Una simile visione ci appare nelle testimonianze riprese da Tertulliano nel 2° secolo, ed è il motivo per cui, nella chiesa ambrosiana e in quella africana, tra il rito del battesimo-cresima e la celebrazione dell’eucaristia si collocava la lavanda dei piedi, che fa entrare i battezzati nella stessa oblazione di Gesù. Ecco perché nel battesimo il Cristo in noi diventa la sua oblazione in noi: attraverso la dinamica rituale avviene una immedesimazione.
 Per evidenziare il concetto, aiutiamoci con la domanda: “Perché in chiesa c’è l’altare?”. I cinque significati del termine altare si scoprono nel rituale della sua dedicazione. Chi è l’altare? Il Cristo. Chi sono i cristiani? L’altare che è Cristo. Da qui il banchetto sacrificale, perché è il Cristo che si sacrifica, che si ritraduce nella materialità del segno dell’altare e la verità del segno dell’altare è il Venerdì Santo. L'ultimo significato dell'altare è che esso è il luogo delle reliquie dei martiri, per dire che occorre entrare nel martirio di Cristo. Potremmo affermare che l’altare è un tavolo che diventa altare, perché l’altare è Gesù e deve essere essenziale e spoglio, per rappresentare lo spogliamento di Gesù, per essere rivestito dell'abito candido della risurrezione.
Il rito della lavanda dei piedi risponde a questa visione. Per evidenziare ulteriormente questo concetto, dobbiamo andare a quello che, secondo gli esegeti, è il centro del discorso dei cinque capitoli dell’Ultima Cena giovannea: l'allegoria della vite e dei tralci.
  Nella Prima lettera ai Corinti 10, 16-17 Paolo afferma: “Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione col sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo?”. Qui cogliamo che prima viene citato prima il calice, poi il pane. Così se leggiamo i versetti 22,14-20 del Vangelo di Luca, ricordando che l’evangelista dipende da Paolo, ci accorgiamo che probabilmente il versetto 20 è aggiunto e nel testo si evidenzia molto bene che al calice segue il pane. Nella Didaché infine, prima c’è la vite di Davide, il sangue. Nell’eucaristia allora il primato va all’infarto per amore, al sangue che diventa vino, per cui il cristiano deve porsi in silenzio adorante: il silenzio eucaristico è l’uomo che ritrova se stesso in Cristo Gesù. Quindi la bellezza dell’eucaristia è l’uomo che, in comunione con Cristo Gesù, ne vive il mistero.
 C’è un paramento liturgico che abbiamo dimenticato: la pianeta. Prima del Concilio, nella celebrazione eucaristica, quando i fedeli guardavano le pianete e l’altare rivolto al muro, a dossale, vedevano la croce della pianeta, il presbitero e l’altare con il crocifisso: la messa era vissuta come il racconto della passione di Gesù, dall’arresto, nel rito d’ingresso, alla sepoltura, al momento della comunione.
Proviamo ora a riflettere sul triduo pasquale in Paolo. La rubrica del messale così recita: “Il triduo pasquale si inizia con la messa in Coena Domini e si conclude con i vespri della domenica di Pasqua di risurrezione”, ma si coglie immediatamente un controsenso: giovedì, venerdì, sabato, veglia, domenica di risurrezione: sono tre o cinque giorni? Il triduo pasquale è: venerdì, sabato, veglia. Il Giovedì Santo è una pratica devozionale nata al tempo di Agostino, perché l’ultima cena è sacramento del triduo pasquale e la passione è l’ultima cena in atto. Non si spiegherebbe altrimenti come sia possibile storicamente che Gesù abbia celebrato il giovedì l’eucaristia e il venerdì, secondo Marco, alle nove del mattino sia già in croce, dopo tutti gli interrogatori e i passaggi che ha affrontato, e nella consapevolezza che allora di notte non si facevano processi. Nella tradizione pare si giunga ad affermare che l’arresto di Gesù avvenne il martedì sera. Gli evangelisti quindi, unendo l’Ultima Cena con la passione, mettono in luce che la passione è nell’ultima cena. Nel testo greco delle parole della consacrazione, infatti, i verbi sono al participio passato: “Questo mio corpo dato per voi, questo mio sangue versato per voi”: è qualcosa che è avvenuto nel rendimento di grazie dell’Ultima Cena. E nella traduzione della Volgata c’è il futuro, perché quell’Ultima Cena anticipa la croce, che verrà in seguito. Va evidenziato un ultimo particolare: i sinottici, nel narrare l’orto degli ulivi, usano l’immagine del calice, che richiama il calice dell’Ultima Cena. Dufour ne dà una bella interpretazione: Gesù celebra l’Ultima Cena con il calice del rito, perché esso divenga il calice dell’ordinario: l’orto degli ulivi.
Gesù nell’Ultima Cena ha bevuto al calice e ha assunto quel pane, perché quel calice dato da lui ai discepoli, quell’unico pane da lui offerto ai discepoli è il Cristo stesso che condivide il suo gesto con loro, perché anch'essi entrino nel suo mistero. Una tale visione emerge in tutta la sua verità nello stile narrativo del vangelo di Giovanni. Il racconto della moltiplicazione dei pani secondo Giovanni è diverso da quello dei sinottici, in due particolari almeno. Primo particolare: Gesù in Giovanni non spezza i pani. Nei sinottici li spezza perché i discepoli li distribuiscano, qui invece viene evidenziato il criterio ecclesiologico: Gesù continua a celebrare l'eucaristia nella sua chiesa attraverso discepoli. In Giovanni, Gesù non spezza i pani. Infatti, ed è il secondo particolare: egli personalmente lo distribuisce, per cui l’eucaristia è il Cristo che presiede, il Cristo che distribuisce, il Cristo che diventa la bellezza dell’umanità. Quando noi presbiteri celebriamo, teologicamente le nostre mani sono quelle del Risorto. Il pane che noi spezziamo non è quello confezionato, quello è il segno, ma è il pane dell’Ultima Cena; e il calice che noi assumiamo è il calice che aveva in mano Gesù, ecco perché ho fatto riferimento al Canone Romano. “Prese il pane nelle sue mani sante e venerabili”, non sono le nostre mani. L'espressione poi “Questo glorioso calice” indica la gloria di Dio. Quindi, in certo qual modo il prete, quando è all’altare, è il Cristo che rende grazie al Padre: siamo nell’Ultima Cena e Gesù è il grande protagonista! Senza un amore al silenzio non è possibile comprendere questo mistero. Il silenzio dà il gusto della presenza del Signore e ci permette di condividerla, senza orpelli di nessun genere, nella essenzialità dei linguaggi. Nella preghiera eucaristica il protagonista è il Signore. Ecco perché il silenzio è la condizione indispensabile per accedere alla bellezza del soprannaturale
Nel clima di silenzio l’uomo si lascia afferrare da Cristo, concentrando la propria esistenza sul mistero nascosto da secoli in Dio e rivelatosi nel Figlio. Nel fascino di questa esperienza scopre di essere stato pensato dall’eternità in Cristo Gesù e un simile progetto divino dà senso alla sua identità.




-

05 aprile 2020

DOMENICA DELLE PALME - Anno A -


Is 50,4-7                   Fil 2,6-11                  Mt 26,14-27-66

OMELIA