10 novembre 2019

XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - (ANNO C)

2Mac 7,1-2.9-14                2Ts 2,16-3,5            Lc 20,27-38
OMELIA


Uno dei problemi più grandi e complessi che l'uomo incontra nel cammino della sua vita è quello della morte, davanti al quale si pone l'interrogativo sul senso della vita. Infatti, il momento in cui noi moriamo evidenziamo quello che è stato ed è il nucleo fondamentale della nostra esistenza. Gesù questa mattina ci aiuta ad aprire un orizzonte di speranza nella nostra storia quotidiana, attraverso due passaggi, che costituiscono la risposta di Gesù ai sadducei, che gli ponevano l'interrogativo sulla vita futura.

Innanzitutto, la nostra fede si fonda, lo ha detto Gesù, sul Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei viventi. In questo noi cogliamo che il Dio della rivelazione è un Dio che si rivela nella storia, è un Dio che ama incarnarsi nel quotidiano, perché la storia è nelle sue mani. Le figure dei tre grandi patriarchi, Abramo, Isacco e Giacobbe, ci dicono che Dio appare nella storia per regalare la vita, per dare senso alla vita, per dire all'uomo quale sia il nucleo essenziale del suo cammino.

Abramo è colui che si è lasciato guidare da Dio. Da lui sono nate tutte le generazioni, perché egli ha aperto la bellezza della vita all’intera umanità, costruendo la sua esistenza alla presenza del Dio della rivelazione e nella obbedienza radicale al suo volere. Sono luminosi il comando e la benedizione che Dio rivolge ad Abramo: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione”, perché in te nascerà una grande generazione. Un simile parametro biblico è estremamente interessante per ogni battezzato perché, nel momento in cui accoglie nella fede il Signore, ne accoglie la storia, ne accoglie il mistero. Il Signore è la chiave interpretativa della vita e tale rivelazione scalda il cuore e illumina la mente. È il Dio che entra in dialogo con noi. In questo noi troviamo uno dei criteri fondamentali per costruire la nostra esistenza. Gli interrogativi della vita ci portano ad accedere ad una sapienza che è di questo mondo, ma non troviamo le soluzioni adeguate e soddisfacenti. Davanti ai problemi della vita, spalanchiamo invece il nostro cuore alla presenza di Gesù, che è il compimento di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e, nel momento in cui apriamo il cuore a Gesù, egli diventa l'anima della nostra anima. In tal modo riusciamo a cogliere che la nostra storia nasce da un Dio che ama la vita, una vita che non conosce la morte. Il cristiano da questo punto di vista possiede una luce interiore, che gli permette di andare al di là del tempo e dello spazio. Egli è il luogo del rivelarsi della vita trinitaria. L'evangelista Giovanni nel suo prologo è stato molto chiaro: “In lui era la vita”. La vita è una comunione che non conosce la morte. Come è possibile allora accogliere il Dio della vita e non riuscire a comprendere il senso della morte?

Il morire è la scelta fondamentale dell'uomo, che gli permette di abbracciare definitivamente la vita. Usando le parole di Gesù, “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito!”, affermiamo la nostra fede nel Dio della vita.

Anche la seconda risposta ci è data da Gesù: “Perché tutti vivono per lui”.

Spesso siamo dominati dalle idee, pensiamo a tante cose e dimentichiamo chi effettivamente abita nelle nostre persone: in noi abita Colui che ci ha creati e ognuno di noi è la fedeltà di Dio in atto. Dovremmo sempre riandare al principio dell'esistenza dell'uomo che entra nel mistero della vita: noi non ci diamo la vita, essa è un dono che viene dall'alto. Ogni vita è l'incarnazione della vita di Dio e, poiché Dio è l'eternità in atto, la sua presenza in noi è eternità! Il cristiano, quando si pone la domanda sul senso del morire, è chiamato a dare senso al proprio vivere e poiché il vivere è il Dio che non delude, la nostra esistenza spazia su un infinito che riusciamo soltanto ad intravedere. C’è un'immagine che altre volte abbiamo utilizzato, è l'immagine del respiro: ogni respiro è Dio che ci crea, è Dio in noi che rende viva la nostra storia e ci dà la certezza di qualcosa di più grande. È la fede dei sette figli della donna del libro dei Maccabei: davanti a qualunque vessazione c'è il Dio della vita. Paolo stesso ci ha richiamati alla profonda convinzione che noi siamo nella vita: “Lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene”. Cos'è l'esistenza se non l'essere chiamati all'incontro glorioso? Il cristiano è già eternità beata, perché la Trinità vive veramente dentro di lui. La Trinità è il nostro respiro e allora dovremmo imparare a leggere la storia. Perché la vita? Perché morire? Perché vogliamo vedere, vogliamo entrare in quella intimità divina che è il senso portante della nostra esistenza. È vero, l’uomo ha paura davanti alla sofferenza che la morte comporta, ma il Vivente è dentro di noi. Quando un bambino viene concepito, ha inizio un'avventura i cui protagonisti sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Dio è fedele alla vita e il morire è il cambiamento del modo di vivere: da una vita contingente, che è lasciata alla tomba, a una vita personale, che spazia sull'infinito di Dio.

Se entriamo in questa visione, ogni respiro ci dà forza, vita e speranza. È quello che abbiamo pregato nel responsorio dopo la prima lettura: “Ci sazieremo, Signore, contemplando il tuo volto”. Il contemplare è una attrazione, è il desiderio più profondo del cuore dell'uomo di giungere alla pienezza nella quale saremo saziati. Morendo diremo: “Finalmente il compimento luminoso della nostra vita!” E allora credo che Gesù questa mattina ci voglia stimolare a leggere in questo orizzonte la nostra storia. In Giovanni, Gesù ci ha detto: “Io sono la risurrezione e la vita”, “Io sono il respiro del tuo esistere”. Tutto questo non è un'ipotesi di lavoro, perché Gesù ha voluto rimanere nell'Eucaristia, in quel pane e in quel vino, perché siamo continuamente stimolati da questo desiderio: contemplare il suo volto per sempre. Noi qui lo vediamo nei segni, lo vediamo nei linguaggi della storia, che non saziano il nostro cuore. Il Signore in noi ci dice: “Vai al di là, trascendi. Quando mangerai quel pane quel vino, cresca in te il desiderio di essere associato al banchetto della vita. Beati gli invitati alla cena delle nozze dell'Agnello”, il banchetto glorioso che sazierà eternamente le nostre persone. Una simile beatitudine non ha confini e ci avvolgerà per tutta l'eternità beata. L'Eucaristia è il desiderio compiuto: mangiare la gloria del Signore. Ecco perché Gesù nel Vangelo è stato molto chiaro: il valore dell'esistenza non è sposarsi o non sposarsi, quello è contingente, è una vocazione storica. La bellezza della vita è entrare in questa visione, che l'Eucaristia ci richiama continuamente, perché il Signore entra in noi, ravviva in noi la sua reale presenza, il cuore spazia verso quell'incontro glorioso, quando la Trinità ci avvolgerà nella sua gloria e saremo come angeli che cantano l'eternità nella notte. Questa sia la nostra forza, il nostro sorriso interiore, il coraggio di dire grazie al Signore del dono della vita, anche nell’evento tragico del morire. E sarà un grazie perenne, che scaturisce da un cuore innamorato e da un cuore intelligente: le nostre persone saranno nella gloria che è l'eternità beata.




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