2Mac 7,1-2.9-14 2Ts
2,16-3,5 Lc 20,27-38
OMELIA
Uno dei problemi più grandi e complessi che l'uomo
incontra nel cammino della sua vita è quello della morte, davanti al quale si
pone l'interrogativo sul senso della vita. Infatti, il momento in cui noi
moriamo evidenziamo quello che è stato ed è il nucleo fondamentale della nostra
esistenza. Gesù questa mattina ci aiuta ad aprire un orizzonte di speranza
nella nostra storia quotidiana, attraverso due passaggi, che costituiscono la
risposta di Gesù ai sadducei, che gli ponevano l'interrogativo sulla vita
futura.
Innanzitutto, la nostra fede si fonda, lo ha detto
Gesù, sul Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei viventi. In questo
noi cogliamo che il Dio della rivelazione è un Dio che si rivela nella storia,
è un Dio che ama incarnarsi nel quotidiano, perché la storia è nelle sue mani.
Le figure dei tre grandi patriarchi, Abramo, Isacco e Giacobbe, ci dicono che
Dio appare nella storia per regalare la vita, per dare senso alla vita, per
dire all'uomo quale sia il nucleo essenziale del suo cammino.
Abramo è colui che si è lasciato guidare da Dio. Da
lui sono nate tutte le generazioni, perché egli ha aperto la bellezza della
vita all’intera umanità, costruendo la sua esistenza alla presenza del Dio
della rivelazione e nella obbedienza radicale al suo volere. Sono luminosi il
comando e la benedizione che Dio rivolge ad Abramo: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre
verso la terra che io ti indicherò.
Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa
tu essere una benedizione”, perché in te nascerà una grande generazione. Un
simile parametro biblico è estremamente interessante per ogni battezzato perché,
nel momento in cui accoglie nella fede il Signore, ne accoglie la storia, ne
accoglie il mistero. Il Signore è la chiave interpretativa della vita e tale
rivelazione scalda il cuore e illumina la mente. È il Dio che entra in dialogo
con noi. In questo noi troviamo uno dei criteri fondamentali per costruire la
nostra esistenza. Gli interrogativi della vita ci portano ad accedere ad una
sapienza che è di questo mondo, ma non troviamo le soluzioni adeguate e
soddisfacenti. Davanti ai problemi della vita, spalanchiamo invece il nostro
cuore alla presenza di Gesù, che è il compimento di Abramo, di Isacco e di Giacobbe
e, nel momento in cui apriamo il cuore a Gesù, egli diventa l'anima della
nostra anima. In tal modo riusciamo a cogliere che la nostra storia nasce da un
Dio che ama la vita, una vita che non conosce la morte. Il cristiano da questo
punto di vista possiede una luce interiore, che gli permette di andare al di là
del tempo e dello spazio. Egli è il luogo del rivelarsi della vita trinitaria.
L'evangelista Giovanni nel suo prologo è stato molto chiaro: “In lui era la vita”. La vita è una
comunione che non conosce la morte. Come è possibile allora accogliere il Dio
della vita e non riuscire a comprendere il senso della morte?
Il morire è la scelta fondamentale dell'uomo, che gli
permette di abbracciare definitivamente la vita. Usando le parole di Gesù, “Padre nelle tue mani consegno il mio
spirito!”, affermiamo la nostra fede nel Dio della vita.
Anche la seconda risposta ci è data da Gesù: “Perché tutti vivono per lui”.
Spesso siamo dominati dalle idee, pensiamo a tante
cose e dimentichiamo chi effettivamente abita nelle nostre persone: in noi
abita Colui che ci ha creati e ognuno di noi è la fedeltà di Dio in atto.
Dovremmo sempre riandare al principio dell'esistenza dell'uomo che entra nel
mistero della vita: noi non ci diamo la vita, essa è un dono che viene
dall'alto. Ogni vita è l'incarnazione della vita di Dio e, poiché Dio è
l'eternità in atto, la sua presenza in noi è eternità! Il cristiano, quando si
pone la domanda sul senso del morire, è chiamato a dare senso al proprio vivere
e poiché il vivere è il Dio che non delude, la nostra esistenza spazia su un
infinito che riusciamo soltanto ad intravedere. C’è un'immagine che altre volte
abbiamo utilizzato, è l'immagine del respiro: ogni respiro è Dio che ci crea, è
Dio in noi che rende viva la nostra storia e ci dà la certezza di qualcosa di
più grande. È la fede dei sette figli della donna del libro dei Maccabei: davanti
a qualunque vessazione c'è il Dio della vita. Paolo stesso ci ha richiamati alla
profonda convinzione che noi siamo nella vita: “Lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha
amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona
speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene”.
Cos'è l'esistenza se non l'essere chiamati all'incontro glorioso? Il cristiano
è già eternità beata, perché la Trinità vive veramente dentro di lui. La Trinità
è il nostro respiro e allora dovremmo imparare a leggere la storia. Perché la
vita? Perché morire? Perché vogliamo vedere, vogliamo entrare in quella
intimità divina che è il senso portante della nostra esistenza. È vero, l’uomo ha
paura davanti alla sofferenza che la morte comporta, ma il Vivente è dentro di
noi. Quando un bambino viene concepito, ha inizio un'avventura i cui
protagonisti sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Dio è fedele alla vita
e il morire è il cambiamento del modo di vivere: da una vita contingente, che è
lasciata alla tomba, a una vita personale, che spazia sull'infinito di Dio.
Se entriamo in questa visione, ogni respiro ci dà
forza, vita e speranza. È quello che abbiamo pregato nel responsorio dopo la
prima lettura: “Ci sazieremo, Signore,
contemplando il tuo volto”. Il contemplare è una attrazione, è il desiderio
più profondo del cuore dell'uomo di giungere alla pienezza nella quale saremo
saziati. Morendo diremo: “Finalmente il compimento luminoso della nostra vita!”
E allora credo che Gesù questa mattina ci voglia stimolare a leggere in questo
orizzonte la nostra storia. In Giovanni, Gesù ci ha detto: “Io sono la risurrezione e la vita”, “Io
sono il respiro del tuo esistere”. Tutto questo non è un'ipotesi di lavoro, perché
Gesù ha voluto rimanere nell'Eucaristia, in quel pane e in quel vino, perché
siamo continuamente stimolati da questo desiderio: contemplare il suo volto per
sempre. Noi qui lo vediamo nei segni, lo vediamo nei linguaggi della storia,
che non saziano il nostro cuore. Il Signore in noi ci dice: “Vai al di là, trascendi. Quando mangerai
quel pane quel vino, cresca in te il desiderio di essere associato al banchetto
della vita. Beati gli invitati alla cena delle nozze dell'Agnello”, il
banchetto glorioso che sazierà eternamente le nostre persone. Una simile
beatitudine non ha confini e ci avvolgerà per tutta l'eternità beata. L'Eucaristia
è il desiderio compiuto: mangiare la gloria del Signore. Ecco perché Gesù nel
Vangelo è stato molto chiaro: il valore dell'esistenza non è sposarsi o non
sposarsi, quello è contingente, è una vocazione storica. La bellezza della vita
è entrare in questa visione, che l'Eucaristia ci richiama continuamente, perché
il Signore entra in noi, ravviva in noi la sua reale presenza, il cuore spazia verso
quell'incontro glorioso, quando la Trinità ci avvolgerà nella sua gloria e
saremo come angeli che cantano l'eternità nella notte. Questa sia la nostra
forza, il nostro sorriso interiore, il coraggio di dire grazie al Signore del
dono della vita, anche nell’evento tragico del morire. E sarà un grazie perenne,
che scaturisce da un cuore innamorato e da un cuore intelligente: le nostre persone
saranno nella gloria che è l'eternità beata.
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