10 aprile 2016

III DOMENICA DI PASQUA - Anno C -

At 5,27-32.40-41              Ap 5,11-14              Gv 21,1-19
OMELIA
Il quotidiano approfondimento della nostra vocazione ad essere discepoli del Maestro ci porta progressivamente a sviluppare il desiderio di voler vedere il Signore: è la grande intuizione che cogliamo nel Vangelo di Giovanni. Il discepolo è chiamato a vedere il Gesù storico, a vedere la fedeltà di Dio, a vedere il Figlio di Dio, dove il vedere è lo sviluppo di un'ebbrezza interiore che si dilata continuamente fino alla immedesimazione del cuore. L'occhio vede ciò che il cuore intensamente ama. Domenica scorsa l'evangelista Giovanni, attraverso la professione di fede di Tommaso, ci ha detto che ripetendo continuamente con l'intensità del cuore “mio Signore e mio Dio” in noi cresce il desiderio dell'intimità. In quel "mio" c'è il senso di un'intensa reciprocità, ma questa esperienza deve fare un passo più avanti quella ripetitività credente che ci permette di rinnovare continuamente il nostro cuore. Tale intensità spirituale si ritraduce nell'obbedienza, che caratterizza la personalità del Maestro divino. Il gusto della comunione trasfigurante e credente porta a vivere come è vissuto Gesù con le sue caratteristiche. Il fallimento, che i sette discepoli sperimentano davanti alla pesca, si ritraduce nell'obbedienza all'invito del Risorto. L'uomo che storicamente fallisce volge lo sguardo verso l'alto e obbedisce e, l'obbedienza si ritraduce in una tale fecondità di vita che l'ebbrezza di questo evento porta a dire da parte del discepolo che Gesù amava: è il Signore!
Una povertà che diventa obbedienza diviene fecondità divina.
L'uomo infatti quando vuole entrare in questa esperienza del vedere il Signore per riuscire a realizzare la pienezza del suo cuore deve diventare una persona che vive gli stessi sentimenti di Gesù, e i sentimenti di Gesù sono stati una cosa sola, come noi ben sappiamo, obbedire! Nella luce del racconto evangelico la scelta d'obbedire nasce da una intensità sensazione di povertà e diventa il punto di partenza per un vedere: è il Signore!
Questa esclamazione del discepolo che Gesù amava ci fa chiaramente intravedere che la bellezza del cammino credente è desiderare continuamente che il nostro occhio si immedesimi nel cuore di Gesù. Se non entriamo in questa affascinante avventura, il discepolo è niente altro colui che esternamente imita, ma non entra nella profondità del mistero.
Nel testo evangelico troviamo un trinomio che ci dovrebbe sempre guidare per maturare nella vocazione al discepolato: supplicare, obbedire, gustare.
È un trinomio che nel cammino della vita dovremmo continuamente approfondire, non siamo mai dei depressi a senso unico, perché il ripetere continuamente l'atto di fede ci porta alla coscienza di una povertà interiore che si apre sulla creatività divina. E in quella creatività divina, che appare l'atto di fede: è il Signore! È quel Risorto che trasfigura nel profondo del nostro essere tutta la nostra personalità perché obbedire è un meraviglioso atto di fede trasfigurante perché porta l'uomo ad una immedesimazione con quella voce, in cui l'uomo ritrova veramente se stesso Chi entra in questo clima spirituale realizza quello che l'evangelista ci ha detto: i discepoli non si ponevano più la domanda, chi sei? perché sapevano che era il Signore. Una simile esperienza si dà quando Gesù invita tutti i sette discepoli a mangiare con lui in un incontro all'insegna dell' assoluta gratuità.
È molto bello come sulla riva del mare Gesù, di sua iniziativa, prepara col fuoco, cucina quel pane, quel pesce, prende i pesci della pesca miracolosa e condivide con loro quello che egli ha preparato. L'intimità relazionale e conoscitiva si vive quando si mangia insieme, in una fraternità segnata da una reciprocità amorosa.
La bellezza dell'esistenza si gusta quando insieme si condivide nel gesto del mangiare un "mangiarsi reciprocamente" nell'amore e quando ci si mangia reciprocamente nell'amore si gusta la presenza concreta dell'invisibile, che anima la profondità delle autentiche relazioni interpersonali.
È la bellezza all'interno della nostra vita.
Quante volte in noi è nato il desiderio di voler gustare la presenza del Maestro. Chi è quel discepolo che non si lasci continuamente prendere dal desiderio di condividere il mistero personale del Maestro? Quando in noi  nasce l'interrogativo di come poter stare con il Risorto e vederlo nella potenza della fede, Giovanni questa mattina ce ne dà la risposta: attraverso quelle tre parole, la supplica credente, la povertà esistenziale, l'obbedienza incondizionata e amorosa. Quando si lasciamo guidare da un simile stile di vita, allora entriamo in quella intimità con il Maestro che ci fa chiaramente intravedere la sua presenza. La presenza del Maestro non si coglie attraverso grandi cose, ma attraverso i semplici e delicati segni  della reciprocità. In questa prospettiva ci accorgiamo che la vita di un cristiano nell'insieme della sua storia, è tutta un sacramento.
Se entriamo nel profondo della nostra vita da discepoli, se sappiamo approfondire quello che siamo, ci accorgiamo che la nostra interiorità si ritraduce in quello che facciamo, e qui abbiamo il segno di un rapporto attivo del Maestro con noi e in noi: diventiamo progressivamente un tutt'uno con il Maestro. Quando percepiamo l'intensità di un rapporto amativo lì c’è una presenza, c'è una relazione, c'è una trasfigurazione, c'è una vitalità per cui senza il Maestro non possiamo più vivere!
È quello che nel linguaggio dell'Apocalisse c'è stato regalato questa mattina. Infatti  ritrovandoci questa mattina nell'eucaristia stiamo facendo una meravigliosa sintesi tra il testo evangelico di Giovanni e il brano dell'Apocalisse. In questo momento siamo qui poveri che vogliono porre l'atto di fede, poveri che nell'obbedienza si sentono avvolti dalla grandezza di una persona che il Maestro! Il Maestro ci raduna attorno a un tavolo, quello che lui ha preparato che è la grandezza dell'Apocalisse. In quei 4 vegliardi e in quei 24 seniori che adorano Dio, in terra è il mistero dell'eucaristia. L'eucaristia è una reciprocità amorosa dove noi cantiamo la grandezza del Maestro. Se riuscissimo a entrare nella bellezza di questa esperienza, non ci dimenticheremmo mai del Maestro anche se tante volte la testa ovviamente è immersa in altre cose. Sappiamo che se la testa è distratta, l'importante è che il cuore non sia mai distratto. Quando il cuore è abitato dall'Ineffabile, si coglie una presenza che ci ricrea. È qualcosa che nella profondità della nostra vita  dovremmo continuamente recepire. Questo è il vedere il maestro: un cuore abitato che vede tutti i linguaggi della vita come segni di una rassicurazione amorosa. Nel vedere emerge l'identificazione. Quando ci si guarda negli occhi non si pensa più, quando ci si guarda negli occhi non c'è nessuna programmazione, quando ci si guarda negli occhi c'è solo una presenza.  Questa presenza vive di silenzio: è il gusto dell'altro che abita in noi. Ecco il mistero eucaristico che noi stiamo celebrando e che ci fa dire, uscendo di Chiesa, ho visto il Signore e cammino con il Signore!
Anche noi, come i discepoli della prima lettura, nel dialogo con i capi del sinedrio diciamo: non possiamo non dire quello che abbiamo visto e udito, non possiamo non obbedire a quella vitalità interiore che il Maestro ha seminato dentro di noi. E se anche la vita sarà una flagellazione storica, in noi c'è il Signore. Quando c'è il Signore, le flagellazioni esistenziali sono ben poca cosa davanti a questa meravigliosa esperienza del Signore in noi. Questa sia la luce che Gesù ci vuole regalare questa mattina per costruire nella speranza le vicissitudini che la Provvidenza ci potrebbe regalare in questa settimana.




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