OMELIA
Il cristiano è chiamato a costruire la sua esistenza come una continua professione di fede per maturare progressivamente nel dono della vera libertà evangelica.
E’ quello che Gesù ci ha insegnato nelle domeniche passate e, davanti
a questo grande ideale che dovrebbe qualificarci ogni giorno, l'uomo avverte la
sua povertà. Costruire un'esistenza tutta come scelta radicale di Cristo ritrovando
in Cristo libertà nonostante i condizionamenti storici è una avventura che,
tante volte, diventa per noi estremamente problematica. Questa mattina Gesù,
ascoltando i nostri interrogativi
esistenziali di tutti i giorni, ci offre due risposte perché possiamo veramente
camminare in questa nostra vocazione a rendere la nostra vita una continua
manifestazione dell'amore del Signore, regalando speranza ad ogni persona che
la provvidenza ci fa incontrare.
Le due soluzioni che ci offre il Maestro sono molto chiare: dilatare
la fede in un profondo cammino di gratitudine.
Nella nostra vocazione all'esistenza dobbiamo sempre ritrovare e
riscoprire queste due coordinate evangeliche, poiché solo vivendo di fede, in
un'esperienza ricca di gratitudine e nella viva consapevolezza delle nostre
povertà, la vita assume una coloritura ben diversa.
Il primo elemento da evidenziare è che dobbiamo ritrovare
continuamente quel cammino di fede di cui ci ha parlato il profeta Abacuc “il giusto
vivrà mediante la fede” e la fede è niente altro che acquisire progressivamente
la stessa sensibilità di Cristo, poiché credere è lasciar fiorire, giorno per
giorno, la presenza del Maestro in noi.
Quando i discepoli hanno detto “accresci in noi la fede”, in quel
momento, i discepoli hanno avvertito il
problema all'interno della loro esistenza: da una parte il Maestro che è in
loro, perché la fede è il dilatarsi della presenza di Gesù e, dall'altra la
convinzione della non docilità a questa azione di Gesù. Nella vita di fede
sussiste sempre l'incontro tra la grandezza del Dio della rivelazione e il
limite esistenziale che accompagna ogni umana creatura.
Chiedere al Signore di accrescere la fede è nient'altro che
supplicarlo perché la sua presenza, nelle nostre persone, possa continuamente
maturare, donandoci la gioia della nostra umanità.
La fede ritraduce la convinzione di un cuore abitato dal Cristo che lentamente
trasfigura la nostra sensibilità. La fede, infatti, non è nell'ordine del capire o del non capire
perché questa è una concezione illuministica ormai superata, ma la bellezza
della fede è sviluppare nello Spirito
Santo la presenza del Signore che diventa la nostra sensibilità.
Vivere di fede è avere il cuore e la mente di Gesù.
Se questo è il primo elemento al quale Gesù ci vuole educare questa
mattina, questa esperienza di fede diventa
per noi veramente feconda se viviamo in atteggiamento di gratitudine. Ecco
perché l'evangelista Luca davanti alla supplica dei discepoli “Accresci in noi la
fede” ci offre questa parabola che è l'espressione più vera dell'atteggiamento
dell'uomo e cogliamo questa consapevolezza nella retta interpretazione di
quell'espressione che qualche volta ci lascia un po' perplessi: quel “siamo servi inutili”.
Quando siamo davanti a quest'espressione, dobbiamo leggere tale
linguaggio nello stile del Vangelo: “quando avremo fatto tutto quello che
dovevamo fare, ricordiamoci abbiamo costruito delle azioni nella gratitudine.”
Quella parole “inutile” non è da intendersi nell'accezione propria del
linguaggio normale ("valgo niente" o espressioni simili), ma come viva
coscienza esistenziale che agiamo nella vita non per ottenere qualche cosa, ma
per il gusto liberante del dire grazie! L’uomo è uomo perché è gratitudine.
Un'esistenza caratterizzata dalle verifiche produttive non appartiene al
meraviglioso ambito dell'invisibile creativo di Dio.
Se leggessimo in profondità la parabola, percepiremmo questa
meravigliosa verità. Teniamo sempre presente che nella cultura sociale
dell'epoca di Gesù, se una persona poteva trovare un datore di lavoro che gli
assicurava la possibilità di vivere, questo lavoratore nella gratitudine
compiva tutto il suo lavoro. Il poter lavorare quotidiano era la manifestazione
concreta della gratitudine al signore che lo aveva assunto e che gli dava la
possibilità di vivere.
In questo noi cogliamo la bellezza dell'esperienza della fede.
La bellezza della fede è il canto della gratitudine.
In questo cogliamo perché l'uomo di oggi ha veramente difficoltà a credere,
ha veramente difficoltà a fare della sua vita una professione di fede, ha
veramente difficoltà a camminare nell'itinerario della vera libertà perché gli
manca da una parte la coscienza dei suoi limiti e, dall'altra, è privo della percezione che la
sua esistenza è tutta grazia! Non è che l'uomo automaticamente creda, ma, come
giustamente ha detto il profeta Abacuc, è il giusto che vivrà mediante la fede.
In altri termini, colui che vive in modo diuturno il rapporto con il divino,
vive in modo diuturno il rapporto con il senso della vita, che è Dio che gli si
rivela.
Davanti al Dio che si rivela, al Dio che opera meraviglie nella nostra
esistenza, al Dio che ci supporta in ogni itinerario quotidiano noi coniughiamo
sempre la gioia del limite e il canto della gratitudine e quando noi entriamo
in questa meravigliosa esperienza, tutto diventa possibile! È il linguaggio
paradossale che Gesù ha utilizzato nelle sue espressioni questa mattina, quando
ha detto: “potreste dire a questo gelso sradicati e vai a piantarti nel mare ed
esso vi obbedirebbe” perché, nella fede, si vive la fecondità di Dio.
Quando entriamo nel cammino
della vita troviamo un trinomio che dovremmo sempre riscoprire e approfondire:
la radicale coscienza dei nostri limiti - dove la bellezza di essere limitati è
la grandezza dell'uomo- e, in questo limite, Dio è meraviglioso tanto da far
fiorire la gratitudine, e il risultato è la fecondità.
Chi nella povertà grida il proprio limite nella profonda coscienza di
essere tutta grazia e, desidera costruire nella gratitudine la propria storia,
costui è un uomo fecondo perché avverte nel profondo della sua esistenza la
creatività inesauribile di Dio. Questa esperienza la dovremmo continuamente
ravvivare dentro di noi perché in questa metodologia evangelica potremmo
ritrovare la bellezza dell'oggi, la speranza del domani, la capacità di
affrontare la storia senza alcuna paura. Nella gratitudine l'uomo respira l'infinito
che offre sempre esuberanza esistenziale nelle oscurità e problematicità del
quotidiano.
In questo, Gesù, è stato veramente meraviglioso!
Quando, in quell'ultima cena, egli ha posto un gesto povero, il pane e
il vino annacquato e, nel porre quel
gesto povero, ha cantato la gratitudine, in quel momento ci ha regalato la
fecondità: questo è il mio corpo dato per voi, questo è il mio sangue versato
per voi. Lasciandoci l'eucarestia, con
questo semplice stile esistenziale, ci ha detto la bellezza feconda della fede.
Gesù, nella semplicità massima del suo
stile operativo, ci regala le realtà più eccezionali perché la bellezza di
essere discepoli, di far la professione di fede, di essere uomini liberi è niente altro che amare
le nostre povertà cantando la gratitudine. Allora ci accorgeremmo veramente che
la bellezza della nostra vita è una costante fecondità di Dio.
Ritroviamo questo gusto della vita, non lasciamoci prendere dalle
tante tentazioni dell'utilitarismo storico, gustiamo la bellezza d'essere noi
stessi in cui Dio è sommamente meraviglioso e ci accorgeremo che credere è nient'altro
che cantare il gusto della vita.
Viviamo così questa esperienza e ogni volta che andiamo all'eucarestia
riscopriamo il trinomio di questa mattina: un povero che grida, una gratitudine
che canta, una fecondità profondamente goduta.
Questa bellezza che in noi continuamente viene ricreata diventerà quel
sorriso della testimonianza della fede che è la cosa bella su cui si costruisce
ogni cammino di evangelizzazione nella cultura odierna.
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