Meditazione di don Antonio Donghi
“Poiché
erano vicini i giorni della Pasqua, Gesù,
sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo
amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Quando ormai Satana aveva messo in corpo a Giuda di tradirlo, Gesù, sapendo che
tutto gli era stato messo nelle mani e che dal Padre veniva e al Padre tornava,
si alzò da tavola, depose le vesti,
si cinse con un asciugatoio, prese un
catino con l’acqua e lavò i piedi” (Gv13,1ss).
Credo che Giovanni ci voglia introdurre in un
mistero altissimo, che solo nel silenzio riusciamo a gustare. “Poiché era
giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che
erano nel mondo, li amò sino alla fine”. L’eucaristia è Cristo
che ama, è Cristo che si fa amare, Cristo che continua ad amare, facendo vivere
la comunità della sua oblazione e nella sua oblazione. Gesù ha detto agli
uomini che li amava, affidandosi, in radicale obbedienza amativa, nelle mani
del Padre. “Poiché il Padre gli aveva messo tutto nelle mani e dal Padre usciva e
al Padre tornava”: il Padre ha regalato l’umanità ed il Figlio ha piena
coscienza di questo grande evento. Secondo la Chiesa orientale, Dio Padre ha
creato l’uomo avendo come modello il Verbo incarnato. L’incarnazione era già
nell’eterno progetto del Padre.
Accostiamoci alla preghiera
sacerdotale di Giovanni: “Ho fatto
conoscere il tuo nome a quelli che mi hai dato, erano tuoi e li hai dati a me.
Ora lascio il mondo e li consegno a te, o
Padre” (Gv 17). È bellissimo! Gesù è consapevole di aver avuto in dono
l’uomo, ma sta tornando al Padre: come può continuare a costruire l’uomo
secondo il progetto di Dio? Il rito della lavanda dei piedi lo afferma
chiaramente: “Poiché il Padre gli aveva
messo tutto nelle mani e dal Padre veniva e al Padre tornava, si alzò da tavola”. Ascoltando “si alzò da
tavola”, pensiamo facilmente al rito dell’ospitalità prima del
pasto. Nel racconto giovanneo tutti però erano già a tavola, quindi il gesto ha
un altro significato. Occorre entrare nel simbolismo di Giovanni.
L'affermazione “si
alzò da tavola” si richiama al prologo: “In principio era il Verbo e il
Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio... E il Verbo si fece carne”.
Prima della preghiera sacerdotale il Maestro dice: “Sono uscito dal Padre e
sono venuto nel mondo, ora lascio il mondo e torno al Padre” (8
16,28). Gesù che si alza da tavola è colui che, rimanendo nella comunione
gloriosa con il Padre, assume la dinamica umana. “Si alzò da tavola, depose le
vesti, si cinse di un asciugatoio”. Un simile atteggiamento
corrisponde a “Il
Verbo si
è fatto carne e venne ad abitare”: è la casa e la vita in casa come
famiglia si costruisce attorno ad un tavolo. Questo ci fa intuire che Gesù ci
ha lasciato il suo testamento nella sua gestualità, perché noi potessimo
entrare in essa, per lasciarci ricreare nella sua umanità ed essere veramente
uomini.
Il racconto dell’Ultima Cena del Canone Romano
è eccezionale, perché è una cristologia in azione, specie se leggiamo il testo
che si utilizza nella messa in Coena
Domini. “In questo giorno, vigilia
della sua passione sofferta per la salvezza nostra e del mondo intero, egli
prese il pane nelle sue mani sante e venerabili, e alzando gli occhi al cielo a
te Dio Padre suo onnipotente, rese grazie con la preghiera di benedizione,
spezzò il pane, lo diede ai suoi discepoli e disse... Dopo la cena, allo stesso
modo, prese questo glorioso calice nelle sue mani sante venerabili, ti rese
grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli e disse...”.
Dobbiamo sempre tener presente il parallelismo tra questo testo del Canone
Romano e l'Ultima Cena giovannea. Gesù nel lavare i piedi regala la sua
personalità all’uomo, tant’è vero che in alcuni filoni della teologia russa la
lavanda dei piedi è considerata un sacramento, perché Cristo trasmette la sua
personalità al discepolo. Nell’atto di lavare i piedi, egli trasferisce il
mistero della sua vita alla chiesa. Pietro che gli dice: “No, non mi
laverai mai i piedi” è l’uomo che rifiuta di essere coinvolto nello
stile amativo del Maestro: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò
sino alla fine”. Gesù immette nell’uomo il suo mistero e il suo desiderio di
regalargli quello che il Padre ha pensato nei confronti dell’uomo, la sua
cristificazione, per cui al diniego di Pietro replica: “Se non ti
laverò, non avrai parte con me nel regno” - “Se io non rivestirò la
tua persona con la mia persona, facendo di te la mia persona, non apparterrai
mai all’evento del regno e non proverai gioia, pace, armonia, con tutti i
frutti dello Spirito Santo”. A quel punto Pietro, avendo capito, non accetta che
gli lavi soltanto i piedi, ma desidera essere lavato tutto! La lavanda dei
piedi è il sacramento di Cristo, che è il grande protagonista e nella presenza
di Cristo in noi, nell’evento eucaristico, ci lasciamo cristificare. Nella
liturgia siro-orientale, la lavanda dei piedi è il sacramento dell’imitazione
cristiana, come appare nei due verbi “lavare” e “purificare”. Una simile
visione ci appare nelle testimonianze riprese da Tertulliano nel 2° secolo, ed
è il motivo per cui, nella chiesa ambrosiana e in quella africana, tra il rito
del battesimo-cresima e la celebrazione dell’eucaristia si collocava la lavanda
dei piedi, che fa entrare i battezzati nella stessa oblazione di Gesù. Ecco
perché nel battesimo il Cristo in noi diventa la sua oblazione in noi: attraverso
la dinamica rituale avviene una immedesimazione.
Per evidenziare il concetto, aiutiamoci con la
domanda: “Perché in chiesa c’è l’altare?”. I cinque significati del termine
altare si scoprono nel rituale della sua dedicazione. Chi è l’altare? Il
Cristo. Chi sono i cristiani? L’altare che è Cristo. Da qui il banchetto
sacrificale, perché è il Cristo che si sacrifica, che si ritraduce nella
materialità del segno dell’altare e la verità del segno dell’altare è il Venerdì
Santo. L'ultimo significato dell'altare è che esso è il luogo delle reliquie
dei martiri, per dire che occorre entrare nel martirio di Cristo. Potremmo
affermare che l’altare è un tavolo che diventa altare, perché l’altare è Gesù e
deve essere essenziale e spoglio, per rappresentare lo spogliamento di Gesù,
per essere rivestito dell'abito candido della risurrezione.
Il rito della lavanda dei piedi
risponde a questa visione. Per evidenziare ulteriormente questo concetto,
dobbiamo andare a quello che, secondo gli esegeti, è il centro del discorso dei
cinque capitoli dell’Ultima Cena giovannea: l'allegoria della vite e dei tralci.
Nella Prima
lettera ai Corinti 10, 16-17 Paolo afferma: “Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione
col sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il
corpo di Cristo?”. Qui cogliamo che prima viene citato prima il calice, poi
il pane. Così se leggiamo i versetti 22,14-20 del Vangelo di Luca, ricordando
che l’evangelista dipende da Paolo, ci accorgiamo che probabilmente il versetto
20 è aggiunto e nel testo si evidenzia molto bene che al calice segue il pane. Nella
Didaché infine, prima c’è la vite di Davide, il sangue. Nell’eucaristia allora
il primato va all’infarto per amore, al sangue che diventa vino, per cui il
cristiano deve porsi in silenzio adorante: il silenzio eucaristico è l’uomo che
ritrova se stesso in Cristo Gesù. Quindi la bellezza dell’eucaristia è l’uomo
che, in comunione con Cristo Gesù, ne vive il mistero.
C’è un paramento liturgico che abbiamo
dimenticato: la pianeta. Prima del Concilio, nella celebrazione eucaristica,
quando i fedeli guardavano le pianete e l’altare rivolto al muro, a dossale, vedevano
la croce della pianeta, il presbitero e l’altare con il crocifisso: la messa
era vissuta come il racconto della passione di Gesù, dall’arresto, nel rito
d’ingresso, alla sepoltura, al momento della comunione.
Proviamo ora a riflettere sul triduo
pasquale in Paolo. La rubrica del messale così recita: “Il triduo pasquale si
inizia con la messa in Coena Domini e si conclude con i vespri della domenica
di Pasqua di risurrezione”, ma si coglie immediatamente un controsenso: giovedì,
venerdì, sabato, veglia, domenica di risurrezione: sono tre o cinque giorni? Il
triduo pasquale è: venerdì, sabato, veglia. Il Giovedì Santo è una pratica
devozionale nata al tempo di Agostino, perché l’ultima cena è sacramento del
triduo pasquale e la passione è l’ultima cena in atto. Non si spiegherebbe
altrimenti come sia possibile storicamente che Gesù abbia celebrato il giovedì
l’eucaristia e il venerdì, secondo Marco, alle nove del mattino sia già in
croce, dopo tutti gli interrogatori e i passaggi che ha affrontato, e nella
consapevolezza che allora di notte non si facevano processi. Nella tradizione
pare si giunga ad affermare che l’arresto di Gesù avvenne il martedì sera. Gli
evangelisti quindi, unendo l’Ultima Cena con la passione, mettono in luce che
la passione è nell’ultima cena. Nel testo greco delle parole della
consacrazione, infatti, i verbi sono al participio passato: “Questo mio corpo
dato per voi, questo mio sangue versato per voi”: è qualcosa che è avvenuto nel
rendimento di grazie dell’Ultima Cena. E nella traduzione della Volgata c’è il
futuro, perché quell’Ultima Cena anticipa la croce, che verrà in seguito. Va
evidenziato un ultimo particolare: i sinottici, nel narrare l’orto degli ulivi,
usano l’immagine del calice, che richiama il calice dell’Ultima Cena. Dufour ne
dà una bella interpretazione: Gesù celebra l’Ultima Cena con il calice del
rito, perché esso divenga il calice dell’ordinario: l’orto degli ulivi.
Gesù nell’Ultima Cena ha bevuto al
calice e ha assunto quel pane, perché quel calice dato da lui ai discepoli,
quell’unico pane da lui offerto ai discepoli è il Cristo stesso che condivide
il suo gesto con loro, perché anch'essi entrino nel suo mistero. Una tale
visione emerge in tutta la sua verità nello stile narrativo del vangelo di
Giovanni. Il racconto della moltiplicazione dei pani secondo Giovanni è diverso
da quello dei sinottici, in due particolari almeno. Primo particolare: Gesù in
Giovanni non spezza i pani. Nei sinottici li spezza perché i discepoli li
distribuiscano, qui invece viene evidenziato il criterio ecclesiologico: Gesù
continua a celebrare l'eucaristia nella sua chiesa attraverso discepoli. In
Giovanni, Gesù non spezza i pani. Infatti, ed è il secondo particolare: egli personalmente
lo distribuisce, per cui l’eucaristia è il Cristo che presiede, il Cristo che
distribuisce, il Cristo che diventa la bellezza dell’umanità. Quando noi
presbiteri celebriamo, teologicamente le nostre mani sono quelle del Risorto.
Il pane che noi spezziamo non è quello confezionato, quello è il segno, ma è il
pane dell’Ultima Cena; e il calice che noi assumiamo è il calice che aveva in
mano Gesù, ecco perché ho fatto riferimento al Canone Romano. “Prese il pane
nelle sue mani sante e venerabili”, non sono le nostre mani. L'espressione poi “Questo
glorioso calice” indica la gloria di Dio. Quindi, in certo qual modo il prete,
quando è all’altare, è il Cristo che rende grazie al Padre: siamo nell’Ultima Cena
e Gesù è il grande protagonista! Senza un amore al silenzio non è possibile
comprendere questo mistero. Il silenzio dà il gusto della presenza del Signore
e ci permette di condividerla, senza orpelli di nessun genere, nella essenzialità
dei linguaggi. Nella preghiera eucaristica il protagonista è il Signore. Ecco
perché il silenzio è la condizione indispensabile per accedere alla bellezza
del soprannaturale
Nel clima di silenzio l’uomo si lascia
afferrare da Cristo, concentrando la propria esistenza sul mistero nascosto da
secoli in Dio e rivelatosi nel Figlio. Nel fascino di questa esperienza scopre
di essere stato pensato dall’eternità in Cristo Gesù e un simile progetto
divino dà senso alla sua identità.
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