10 maggio 2020

V DOMENICA DI PASQUA - ANNO A –


At 6,1-7                   1 Pt 2, 4-9               Gv 14, 1-12

OMELIA

Il cristiano, seguendo il Cristo, porta delle pecore, riscopre sempre più il dono della libertà e gode la fecondità inesauribile di Dio. L’orizzonte delineato domenica scorsa, oggi viene ulteriormente approfondito, perché l’evangelista ci consegna uno dei caratteri centrali dell’esperienza della fede. Gesù ci sta donando gli elementi fondamentali del suo testamento, perché la sua presenza sia viva e operante nel nostro quotidiano. Essi rappresentano la condizione per poter camminare con speranza nelle realtà complesse della vita.

Il Maestro ci pone dinanzi tre passaggi, che dovrebbero alimentare lo stile interiore delle nostre scelte e darci entusiasmo nel costruire la nostra ferialità.

Innanzitutto, dobbiamo prendere coscienza che noi abitiamo nel Signore. Gesù ci ha detto chiaramente che non dobbiamo avere alcun timore perché, nel suo mistero di morte e risurrezione, ormai stiamo abitando in lui, anzi egli stesso viene ad abitare in noi: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi”. È la stessa immagine che abbiamo ascoltato nella prima lettera di Pietro: noi siamo pietre vive fondate sulla pietra viva, che è il Cristo risorto. L’uomo nel cammino della sua esistenza ha un unico riferimento: abita nel Risorto. Questa verità dovrebbe essere così certa nel nostro spirito che se qualcuno ci chiedesse dove abitiamo, dovremmo-per paradosso- rispondere che abitiamo nel Risorto. È la grandezza della nostra vita! Noi siamo radicati in lui, e in lui, istante per istante, esistiamo, perché “il posto” di cui Gesù ci ha parlato non è altro che la sua persona gloriosa. “Avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo”. Nel Signore abbiamo il nostro posto, perché la nostra esistenza è totalmente inserita in lui. Ecco perché il cristiano deve rammentare continuamente a se stesso: “Sono in lui!”.

La nostra vita è già gloriosa mentre camminiamo nel tempo e nello spazio, perché abitiamo nella sua persona ed egli opera in noi, coinvolgendo la nostra libertà nei suoi disegni. Gesù ce l’ha ripetuto alla fine del brano del Vangelo, nella seconda stimolazione: “Chi crede in me, anch'egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre". Nella nostra quotidianità non compiamo semplicemente le opere di Gesù di Nazareth, ma viviamo le opere di Gesù risorto. Anzi in noi e con noi il Risorto continuamente agisce, cosicché le nostre azioni sono le sue: sono la quotidiana incarnazione della sua presenza. La grandezza della vita si fonda sul nostro abitare nel Signore, per “compiere”, attraverso la nostra libertà e con la nostra persona, il mistero di Gesù morto e risorto. È quella fecondità interiore che l’uomo distratto non riesce a cogliere, ma che a noi è dato di percepire: la nostra vita, le nostre azioni, il nostro camminare, tutto di noi è il Cristo risorto che dilata in ciascuno le sue potenzialità. Non siamo mai soli, un Altro meravigliosamente agisce in noi, al di là di ogni nostra umana prospettiva e ci dona il gusto della positività della nostra esistenza. Tante volte siamo presi dalle paure perché dimentichiamo il positivo che siamo noi e, in certo qual modo, veniamo catturati dai nostri interrogativi, dimenticando che il Signore sta operando dentro di noi.

Quando percepiamo questa verità, si apre al nostro orizzonte la sorprendente espressione di Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre”. Gesù, che opera dentro di noi, è continuamente in comunione con il Padre e, se noi lasciamo operare Gesù, che è tutt’uno con il Padre, la nostra vita diventa dire a Dio: “Padre!”. Nella divina liturgia noi non recitiamo semplicemente il Padre nostro, ma formuliamo la più grande professione di fede: “Padre!”. In quel momento la nostra esistenza si apre sull’infinito, che ci dà speranza in ogni oscurità. La professione di fede è un raggio di luce, che ci proietta nell'Infinito del Dio della rivelazione cristiana. Gesù è entrato nella storia, ci ha assunti in sé, opera continuamente nella nostra esistenza perché possiamo dire in lui, con lui e come lui: “Padre!”. Quando l’uomo, nella semplicità del quotidiano, dice “Padre” non ha alcuna paura, perché nella paternità di Dio, sperimentata in Gesù, pregusta la pienezza della propria storia. Dobbiamo domandarci se diciamo il Padre nostro, o se facciamo l’esperienza di Dio Padre, della paternità di Dio con noi, che siamo i figli che egli ama. Gesù non ci ha insegnato il Padre nostro, Gesù ci ha insegnato a dire: “Padre!”.  Quando, nel silenzio della nostra riflessione, riusciamo ad approfondire questa parola, avvertiamo Gesù che si rivolge al Padre e percepiamo che stiamo abitando nella vita delle tre Persone. Non siamo più soli: il Padre ci dona il Figlio e il Figlio, operando in noi, nello Spirito ci pone in comunione-comunicazione con il Padre.

Questo è il mistero che la Parola questa mattina potrebbe invitarci ad approfondire, in modo che, se la vita si prospetta nella sua problematicità, diciamo: “Padre!” Allora il buio della storia diventa luce di eternità; all’affanno segue la tranquillità, alle paure la gioia di esistere. Ritroviamo in Gesù questa semplicità e la vita avrà un’altra coloritura.

Gesù ci ha convocati attorno a sé perché voleva dire ad ognuno di noi: “Venendo alla celebrazione eucaristica ricordati che stai abitando in me, stai permettendo a me di agire, in te io sto morendo e risorgendo e ti do la capacità, la mia stessa capacità, di dire: “Padre!”

Se questa mattina avessimo intuito questa meravigliosa verità e, uscendo di chiesa, ci fosse anche il temporale più impetuoso, dicendo “Padre!” gusteremmo l’Eterno, e procederemmo all’asciutto verso quella pienezza di gloria, dove Gesù ci invita ogni giorno a dire “Padre!”, per rivelarci il suo volto.

Quando noi potremo dire di essere veramente discepoli del Signore? Quando gli uomini ci domanderanno: “Insegnaci il Padre e ci basta”. Allora veramente avremo scoperto la bellezza del Vangelo.

Un cristiano è contento quando i fratelli gli dicono: “Mostrami il Padre e ci basta”: vuol dire che siamo veramente discepoli del Signore!

Camminiamo in questa luce, ricchi di fiducia e di speranza, certi che non saremo mai delusi. Abitando in Gesù, lasciando operare lui, in lui apriamo lo sguardo verso la pienezza della vita: il volto di Dio, Padre di ciascuno di noi.

 



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