01 maggio 2016

VI DOMENICA DI PASQUA - Anno C -

At 15,1-2.22-29                Ap 21,10-14.22-23                      Gv 14,23-29
OMELIA
La gioia di appartenere al Signore si ritraduce nella esperienza di uniformità tra la mente e il cuore del discepolo e la mente e il cuore di Cristo. La bellezza d'appartenere al Risorto è amare e leggere la storia con il cuore e la mente di Gesù.

Davanti a questo orizzonte che l'esperienza della Pasqua ci offre, Gesù, questa mattina ci dà un metodo molto semplice perché tale verità divenga veramente feconda: “Se uno mi ama osserva la mia parola, il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.

“Se uno mi ama osserverà la mia parola”.

Se guardiamo attentamente la rivelazione, cosa vuol dire quell'espressione di Giovanni: "se uno mi ama?" Il cristiano sa esattamente che l'amore è la vita incomprensibile di Dio; il discepolo sa, nella sua esperienza di fede, d'essere avvolto in questa gratuità di Dio che ritraduciamo con quella parola incomprensibile che si chiama “amore”. L'uomo può amare perché amato e allora, cosa vuol dire Giovanni, quando afferma: "se uno mi ama?" Se uno non vive nella riconoscenza il gusto d'essere amato da Dio, non potrà amare. Amare è la fecondità divina in noi.

Se potessimo ritradurre questo concetto in maggiore essenzialità, potremmo dire: il gusto riconoscente dell'ineffabilità di Dio diventa il nostro amare e allora, intuiamo che l’amare dell'uomo è direttamente proporzionale alla coscienza ricca di riconoscenza attiva dentro di noi. L'uomo può costruire la sua vita solo nella riconoscenza e quando uno parte da questa convinzione, la sua esistenza è un capolavoro della gratuità di Dio che abita il suo cuore. Osservare la parola di Gesù vuol dire nient'altro che dare un volto storico a questa riconoscenza.

Nella prima lettera di Giovanni si dice che i comandamenti che il Signore ci offre non sono gravosi  e,  davanti a questa affermazione possiamo avere anche delle difficoltà, soprattutto conoscendo la nostra esistenza estremamente povera. Ma se partiamo dalla convinzione che la nostra esistenza è totalmente un atto della gratuità di Dio e che l'uomo, in questa gratuità, non fa altro che dire “grazie” restituendosi con gratitudine a Dio, l'invito di Gesù ad osservare la sua parola è niente altro che dire al Signore: opera come vuoi nella mia vita.

Infatti quella parola “osservare” è la sintesi di due atteggiamenti: spalancare la nostra vita ad una persona, ruminandone continuamente la presenza. Accogliere una persona, dove la sua accoglienza  è nient'altro che prendere coscienza che senza quella persona non possiamo vivere. Se il Signore non fosse dentro di noi, se il Signore non operasse nella nostra storia, se il Signore non fosse creativo in noi, cosa saremmo noi?

Osservare la parola è spalancare continuamente la nostra persona alla persona di Gesù; è avere sete, nel più profondo del nostro essere, della sua presenza.

Chi non ha sete della presenza di Gesù non potrà mai osservarne la parola, ma questa presenza ricca di sete deve essere continuamente ruminata. È quella gustazione di una presenza che diventa interiormente criterio portante di tutta la nostra storia.

Noi sappiamo che Dio abita in noi, Dio in modo meraviglioso ci ama, Dio in noi dilata la sua capacità d'amore: è quel gusto che abbiamo entrando in noi e meditando attraverso il silenzio del cuore questa presenza e, allora, meditando questa presenza, l'osservare la parola diventa ritradurre, nel concreto di tutti i giorni, la bellezza della riconoscenza. Ogni atto che compiamo, ogni pensiero che formuliamo, ogni atteggiamento che incarniamo è la riconoscenza per una presenza creatrice che fa in noi opere meravigliose! È possibile che il cristiano nel cammino della sua vita non apra la sua esistenza a questa continua riconoscenza? Anzi, si può dire, che l'agire del cristiano è la fecondità storica della riconoscenza all'amore di Dio. In certo qual modo incarnare la presenza del Signore è la fecondità dello Spirito Santo che scaturisce da un cuore abitato da un cuore ricco di riconoscenza.

La vita è diversa perché diventa proprio l'espressione di una ricchezza interiore che non può non diventare linguaggio. Il cristiano non osserva semplicemente i comandamenti, ma canta la gratitudine delle scelte quotidiane.

Questa è la grande libertà del cuore, che imita quello di Gesù:" se uno mi ama osserverà la mia parola".

Il risultato di una simile esperienza, l'ha detto molto bene Gesù, è " Il Padre mio e io verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Da Dio a Dio, con l'animo riconoscente per gustare - nell'umano - la fecondità divina .In questo orizzonte, la vita è un continuo processo di trasformazione, che nel momento in cui moriremo, sarà la pienezza dell'incontro tra Dio che ama e la fecondità riconoscente dell'uomo. Entreremo perciò in una esperienza che sarà così luminosa  - come ha detto molto bene l'Apocalisse - perché sarà un canto di eterna riconoscenza dove, il cantare, seguendo l'Agnello è, in termini di eternità, osservare la parola di Gesù perché il paradiso sarà un canto che non ha confini.

In quest'eucarestia nella quale ci sentiamo amati da Dio, la bellezza di giungere all'eucarestia è la bellezza di giungere a vivere con riconoscenza il dono di Dio che ci vuole amare e che ci sta amando. Assumendo quel pane quel vino noi non faremo nient'altro che raccogliere il gesto fecondo dell'amore di Dio nei nostri confronti e torneremo a casa profondamente consapevoli che la nostra vita è abitata dal Padre, dal Figlio nella fecondità dello Spirito Santo.

Questa sia la speranza che vogliamo portarci a casa questa mattina in modo che quando siamo davanti alle scelte quotidiane  non ci lasciamo prendere dalle cose contingenti, come le clausole di Giacomo che abbiamo ascoltato nella prima lettura, ma godremo la libertà del cuore, la libertà di operare delle scelte, la libertà di regalarci ai fratelli, la libertà gioiosa di attendere quell'incontro finale in cui la nostra vita sarà pienamente e totalmente trasfigurata.




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