11 novembre 2018

XXXII DOMENICA T.O. - ANNO B -


1Re 17,10-16                      Eb 9,24-28               Mc 12,38-44

OMELIA

Il lavoro a cui il discepolo del Signore viene continuamente chiamato è il ritrovare e riscoprire l'unità di vita. Cuore, mente, sensibilità, azione sono realtà che hanno il loro senso nella persona stessa di Gesù e il Maestro questa mattina ci aiuta ulteriormente a ritrovare questa unità di vita attraverso la tipologia delle due vedove che, insieme, incarnano l'unità di vita a cui noi siamo chiamati.

Da una parte la vedova del Vangelo che vive di rendimento di grazie a Dio per la sua identità e, dall'altra, la vedova narrata dal profeta Elia nel primo libro dei Re che non fa nient'altro che regalare al profeta la bellezza del suo vivere di provvidenza. Queste due vedove insieme ci aiutano a ritrovare quell'unità di vita a cui noi dobbiamo continuamente aspirare.

Innanzitutto la vedova del Vangelo, dove nel suo atteggiamento troviamo le tre caratteristiche che deve avere l'uomo quando vuole veramente costruire nella fede la sua esistenza. Quella donna è nel tempio e alla presenza di Dio; il tempio è il luogo in cui dimora la gloria di Dio, il tempio è il luogo in cui Dio si rivela fedele.
Il tempio è il luogo in cui la creatura ritrova se stessa. L'uomo è autenticamente se stesso perché vive la presenza dell'Assoluto, gusta una prossimità divina che lo apre alla trascendenza. L’uomo entra nel tempio che è la Chiesa per “stare” alla presenza di Dio, per gustarne la fecondità e riscoprire continuamente la propria identità. Il tempio non è semplicemente il luogo del culto rituale, ma è il luogo per “stare sacramentalmente” alla presenza di Dio. E per realizzare questa meravigliosa esperienza l'evangelista Luca ama dare la tipologia della vedova.

Se guardiamo attentamente il Vangelo di Luca per ben quattro volte ci dà l'esempio della vedova: la vedova che è Anna (figlia di Fanuele), la vedova di Naim, la vedova di fronte al giudice iniquo e poi la vedova che abbiamo ascoltato nel Vangelo. Ma chi è la vedova nell'esperienza del Vangelo se non la donna che è innamorata talmente del Signore che non può vivere senza il Signore?

Come una vedova storica, nel momento in cui le muore il marito, desidera continuamente il ricongiungimento con la persona sommamente amata, così l'anima, è vedova perché senza il suo Signore non può vivere. La bellezza dell'essere nel tempio è una sete veramente inesauribile del volto dell'amato. Noi ci collochiamo nel tempio perché abbiamo la sete del volto di Dio Come una cerva nella ai corsi d'acqua così l'anima mia anela a te o Dio -  Il tuo volto Signore io cerco, non nascondermi il tuo volto.

La bellezza del credente è stare alla presenza di Dio per dissetare il desiderio di autenticità di vita, ma nel momento in cui scopre che la sua esistenza è tutta nel mistero di Dio, in quel momento, si sente pura grazia. È interessante il particolare che l’evangelista ci offre: quella vedova dà tutto quello che aveva di che vivere, perché vivere è essere alla presenza di Dio, e se lo stare alla presenza di Dio, se il desiderio di Dio è il principio portante della sua storia, ella restituisce a Dio con gratitudine totalmente se stessa. È una circolarità che noi dovremmo sempre ritrovare, una circolarità nella quale noi ritroviamo il senso portante della vita. Alla presenza del Signore, continuamente desideriamo l'appagamento di noi stessi vivendo nell'atteggiamento del rendimento di grazie dove il rendere grazie non è altro che restituire con gratitudine a Dio la gioia di appartenere a Lui! Essere nel tempio è gustare questa circolarità divina che caratterizza la nostra esistenza.

Di fronte a questa visione dovremmo superare ogni forma di illusione religiosa, rivivendo in noi stessi l'esemplarità della vedova del profeta Elia, la quale nel concreto vive lo stare alla presenza di Dio, diventando solidale con le esigenze del profeta.

Davanti all'uomo di Dio, davanti a colui nel quale Dio parla, quella donna, non pensa che nel dar da mangiare ad Elia potrebbe depauperare se stessa e suo figlio; è talmente cosciente di questa gratuità divina che condivide con lui la propria povertà. La bellezza dello stare alla presenza di Dio si incarna nella relazione con i fratelli, nel condividere la bellezza di Dio e la sua grandezza. Quando l'uomo si sente tutto nel divino non ha problema per realizzare la comunione dei beni; la comunione dei beni è nient'altro che ritradurre nell'esperienza concreta l'essere tutta grazia. Infatti la bellezza della gratitudine è la gratuità nel donarsi, la bellezza della gratitudine è generare fusioni di cuori, la bellezza della gratitudine è riscoprire che, secondo il principio degli atti degli apostoli, più nessuno considerava sua proprietà quello che aveva ma tutto tra loro era comune. La gratitudine è la libertà dell'io per elaborare il noi, è quel desiderio di Dio che diventa desiderio di autentica fraternità. E il risultato è la fecondità.

La bellezza della descrizione che abbiamo avuto dal primo libro dei Re è questa: quella donna ha sempre avuto l'olio e la farina, per sempre, per tutto il tempo della carestia. L'uomo che nel rendimento di grazie elabora continuamente la sua esistenza è la fecondità di Dio vivente.

L'uomo di oggi drammaticamente ha dimenticato questi valori fondamentali; noi qualche volta veniamo in chiesa “per obbligo”, per bisogni psicologici, ma dobbiamo imparare che veniamo in chiesa perché siamo degli assetati di comunione, di comunione con Dio nella gratitudine, di comunione con i fratelli nell'esultanza della reciprocità e quando noi entriamo in questo grande mistero la nostra vita è una unità, unità con Dio, unità con gli uomini, è quello che ci dicevamo domenica scorsa: amare Dio e amare gli uomini è incarnare la persona di Gesù, vero Dio e vero uomo.

E' bello questa mattina ritrovarci nell'eucaristia perché siamo assetati della presenza di Dio.

Che senso ha entrare in chiesa senza la sete della persona di Gesù, che senso ha venire in chiesa e non avere sete della sua parola, com'è possibile essere colmati da una presenza e non cantare? Ma il canto del cuore soprattutto! Dove nel momento in cui noi entreremo nella verità del nostro ritrovarci noi diremo alla domanda del celebrante: in alto i nostri cuori, sono rivolti al Signore, cioè le nostre persone sono tutte immerse nel mistero di Dio e immersi nel mistero di Dio rendiamo grazie a Signore nostro Dio: è quello che stiamo aspettando. Tanta è la grandezza di Dio in noi Signore che non possiamo renderti grazie, restituirti la gioia di vivere! Un simile atteggiamento diventa il condividere il pane per condividere la vita nel quotidiano. E allora scopriremo la bellezza della fecondità.

I brontoloni - quante volte ce lo siamo detti - non hanno accesso al regno dei cieli. La bellezza della fecondità di Dio è la bellezza di cantare la gratitudine in una sete del volto di Dio che diventa la realtà più affascinante della nostra si esistenza. Andare all'eucaristia è perciò andare alla scuola di vera umanità: tutti in Dio con i fratelli, per essere con i fratelli tutti rapiti nel mistero della gratitudine a Dio. Allora la vita diventa veramente feconda.

Impariamo questo metodo che la parola di Gesù ci ha regalata in modo che possiamo essere quel Gesù della lettera agli Ebrei che in un unico atto ha santificato l'intera umanità. Allora ritroviamo il gusto di questa presenza, di questa reciprocità, avendo come criterio quello che Paolo nelle sue lettere dice circa la vita cristiana e in tutto rendete grazie ... sia che mangiate sia che beviate rendete grazie. La gratitudine nel mistero di Dio è la fecondità della vita e allora avremo superato ogni forma di depressione che fa chiudere l'uomo in se stesso.
Quando cantiamo la gratitudine con i fratelli siamo la fecondità di Dio che è condividere la comune speranza.








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